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Il grande flop dei vaccini italiani: così è fallito il piano. "Mai prima del 2024"

Carlo Solimene
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Il 31 marzo scorso il ministero per lo Sviluppo economico l’aveva dato per certo. «L’Italia partecipa alla competizione a livello europeo per attrarre investimenti e conseguire al più presto, comunque entro l’anno, l’autosufficienza vaccinale anche per il futuro». A distanza di poco più di quattro mesi, però, i propositi sono rimasti per larga parte sulla carta. E quello che sembrava un sogno è destinato a restare tale. A Il Tempo, infatti, l’ex ministro dell’Economia Giovanni Tria - incaricato da Giancarlo Giorgetti di seguire la partita della produzione autoctona dei vaccini anti-Covid - ammette che i negoziati con imprese e attori internazionali sono in corso ma manca ancora il nero su bianco. E l’ex presidente dell’Ema Guido Rasi, a sua volta coinvolto in una fase del progetto, tira le fila: «Se anche un accordo fosse siglato alla mezzanotte di oggi, l’autosufficienza vaccinale non sarebbe raggiunta prima della fine del 2023. Anzi, forse neanche per quella data». La vicenda della produzione in Italia dei farmaci anti-Covid racconta perfettamente la paralisi di un Paese che magari ha belle idee, ma poi è costretto ad arrendersi di fronte alle pastoie burocratiche e legali. Eppure, in questo caso, le buone intenzioni c’erano tutte. Forte dell’imprimatur avuto da Mario Draghi, Giorgetti aveva affrontato la questione della produzione di farmaci in Italia esplorando due possibilità: quello di creare e fabbricare in Italia nuovi vaccini a mRna (la tecnologia che più di altre si stava mostrando vincente contro il virus) o di accordarsi con Pfizer e Moderna per aggiudicarsi almeno alcune fasi della produzione. L’avvio del progetto, tra febbraio e marzo, è spumeggiante. Al Mise si incontrano più volte Giorgetti, Tria, il presidente dell’Aifa Giorgio Palù, il generale Antonio Battistini della struttura commissariale e i rappresentanti di Farmindustria. Il governo vuole investire, le imprese non vedono l’ora e, al termine del quarto incontro, l’11 aprile, arrivano gli annunci trionfalistici. Quattro imprese - ovviamente top secret - «sono pronte a produrre direttamente o per conto terzi». «L’Italia partecipa così alla competizione a livello europeo per attrarre investimenti e conseguire al più presto, comunque entro l’anno, l’autosufficienza vaccinale anche per il futuro». A quel punto, però, le comunicazioni si interrompono. E del progetto non si sa più nulla. Certo, c’è la possibilità che, vista la delicatezza della materia, gli accordi siglati siano tenuti riservati. Ma a picconare le speranze nei mesi successivi sono proprio le parole di Giorgetti.

 

 

 

A maggio, intervenendo all’evento «VacciNation - How to win the vaccines Race», parla di «processi di riconversione già sollecitati che intendiamo attivare». Ma per farlo «servirà anche il coordinamento europeo» al fine di perseguire «un trasferimento tecnologico che consenta, attraverso adeguate partnership, la produzione di vaccini anche in Italia e in Europa». Insomma, sono passati due mesi e si è ancora nella fase delle buone intenzioni. A luglio, poi, Giorgetti riceve al Mise il commissario europeo all’Industria Thierry Breton, e si parla proprio di vaccini. Al termine dell’incontro, il ministro ribadisce «l’impegno italiano ad aumentare la capacità produttiva del Paese, attraverso accordi con l’industria farmaceutica e lo sviluppo di nuovi vaccini». Accordi che, quindi, in quel momento ancora non ci sono. Che fine ha fatto dunque l’impegno a raggiungere «l’autosufficienza vaccinale» entro il 2021? I tempi residui sono ancora compatibili con la promessa fatta dal ministro? Per scoprirlo Il Tempo ha provato a contattare i principali protagonisti del progetto. Ma è stato come sbattere contro un muro di gomma. I dirigenti del Mise direttamente coinvolti rimandano all’ufficio stampa. L’ufficio stampa chiede di sottoporre le richieste via mail ma, al tempo stesso, avvisa che sarà difficile trattare la questione «perché, sa, ora c’è il G20 a Trieste e...». E infatti, a oltre sessanta ore dalla nostra richiesta, nessuna risposta è pervenuta. Anche Palù dell’Aifa spiega di non poter dire nulla del progetto. A sbottonarsi appena è l’ex ministro Giovanni Tria. Che, sentito al telefono, spiega che potrebbe ancora essere possibile produrre fiale in Italia entro il 2021 ma di non poter aggiungere altro perché ci sono accordi negoziali di riservatezza. Chiediamo quindi se gli accordi sono stati firmati. La risposta è laconica: «Non ancora». L’unico «testimone» diretto a parlare volentieri della vicenda è Guido Rasi, già presidente dell’Ema (l’Agenzia del farmaco europea) che partecipa a una delle riunioni informali con Giorgetti e le aziende interessate tra fine marzo e inizio aprile. E, al termine dell’incontro, va via piuttosto soddisfatto. «Sì, perché mi ero reso conto di come i presenti avessero colto perfettamente il punto della questione. Al di là delle buone intenzioni di tutti, la legislazione italiana creava più di un problema al varo di un investimento con compartecipazione pubblica e privata».

 

 

 

L’esempio pratico sta nella vicenda Reithera: «In Germania investono 300 milioni su Curevac senza pensarci più di tanto. Noi mettiamo qualche bruscolino su Reithera e succede quello che succede». Leggasi bocciatura della Corte dei conti e stop tra le polemiche. All’individuazione del problema, però, non è seguita un’adeguata soluzione. «L’unico intervento legislativo degno di nota - spiega ancora Rasi - è stato l’emendamento al Dl Recovery che permette la sospensione temporanea dei brevetti in caso di emergenza sanitaria». Un’iniziativa, quella dell’ex ministra Giulia Grillo (M5s) che però Raisi boccia: «Perché è un disincentivo a investire in Italia. Lei porterebbe qui impianti di produzione e personale formato se poi da un momento all’altro possono requisirle il brevetto?». Qualche novità legislativa c’è anche nel Dl Sostegni Bis, con la Fondazione «Enea Tech e Biomedical» che - è scritto - dovrà occuparsi anche di «potenziamento della ricerca, sviluppo e riconversione industriale del settore biomedicale verso la produzione di nuovi farmaci e vaccini» e che, a tal fine, avrà una dote di 400 milioni. Ma il problema, più che dalle risorse, è costituito sempre da burocrazia e tempistiche. Da questo punto di vista, l’ex presidente Ema è categorico. «Se si firmasse stasera un accordo con un’importante casa produttrice, le prime fiale non uscirebbero dalle fabbriche prima di 8-10 mesi. E, in quanto all’autosufficienza vaccinale, non se ne parlerebbe prima della fine del 2023. Anzi, forse non basterebbe neanche questo tempo. Perché vanno portati in Italia i bioreattori necessari (almeno 10-15 per l’autosufficienza)e va formato il personale». Insomma, ci vuole tempo. Tanto. E forse non conviene neanche. «Se io fossi il governo e avessi soldi da investire nei vaccini - conclude Rasi - non punterei certo sulla tecnologia a mRna, che ormai è scientificamente vecchia. Piuttosto sui nuovi vaccini orali. Tra qualche anno si useranno le pasticche». Per l’Italia, che vanta una buona filiera dell’infialamento, un’altra pessima notizia.

 

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