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Il racconto dell'esperienza in carcere di Ambrogio Crespi: "Ai miei figli ho detto vado in missione segreta"

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Giovanni Terzi
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«Ciao amori miei vi saluto e vado in missione segreta». Queste le parole di Ambrogio Crespi a casa a Roma ai suoi due figli il 10 marzo di quest’anno. Un saluto che rappresenta in pochissime parole l’indole profonda di un uomo. Ambrogio era stato condannato a sei anni di carcere ed il suo reato prevedeva l’impossibilità per un po’ di mesi di poterli rivedere. Ed allora cosa dire ai suoi amori, cosa inventarsi per essere rispettosi nei confronti dello Stato e non costruire traumi verso Luca e Andrea? «Papà è un agente segreto chiamato a far fare pace a due popoli» racconta Helene ai loro figli «ma cercherà di videochiamare almeno due volte a settimana». Per fortuna, infatti, il periodo Covid ha inserito le videochiamate per cui, i bambini sanno che papà fa due brevi videochiamate a settimana durante la sua missione segreta. Quel 9 Marzo 2021 la Corte di Cassazione emette una sentenza terribile che conferma ciò che già l’appello aveva dichiarato: Ambrogio Crespi è colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa e dovrà scontare i suoi sei anni di detenzione in massima sicurezza In regime di 416 bis. Ma la cosa che più lascia di stucco tutti e che Ambrogio i correi mafiosi non li ha mai visti nella sua vita. Avrebbe potuto gridare, urlare e lamentarsi Ambrogio Crespi ed invece con grande dignità si costituisce nel carcere di Opera, prima ancora di ricevere l’ordine di esecuzione per evitare che venissero le forze dell’ordine a prelevarlo a casa davanti ai bambini. Luca e Andrea, «la mia cozza ed il mio Koala», così chiama Ambrogio i suoi bambini. Il più grande è unito a lui da un filo di vita della rinascita, un amore immenso, il piccolo è l’espressione dell’amore puro e profondo, attaccatissimo al suo papà. Hanno 8 e 5 anni, nel momento della sentenza, e sono cresciuti in una famiglia che vive all’insegna della legalità. Questo spinge Ambrogio, totalmente innocente ed estraneo ai fatti contestati a scegliere di costituirsi affinché i bambini non potessero mai pensare che carabinieri o polizia siano persone «cattive». Io ho la fortuna di conoscere Ambrogio da più di vent’anni e so chi è; lo so perché la sua vita, non semplicemente quella umana ma anche quella professionale si è sempre strutturata su un principio di lealtà e legalità. Ambrogio Crespi è il regista che ha voluto sempre combattere le mafie con Docu-film di denuncia, rischiando in prima persona di essere ucciso dalla malavita organizzata. E così proprio lui dovrà trascorrere sei anni insieme a coloro che per una vita ha combattuto.

Ambrogio ti sei costituito nel carcere dove hai girato parte di un tuo docufilm cosa hai provato?
«Quando mi sono consegnato nel carcere di Opera, dopo qualche giorno di isolamento preventivo sono risultato positivo al Covid19. Non nego che a quel punto pensavo di aver oltrepassato anche il limite della mia resistenza e ho iniziato a lasciarmi andare. Sono stato trasferito a San Vittore, ma non reagivo, non mangiavo, bevevo poco, ero distrutto. Poi dopo avermi fatto alcuni esami riscontrarono una saturazione troppo bassa e disposero il mio trasferimento all’ospedale Niguarda».

 

 

Sei anni da scontare, l’entrata in carcere e poi la positività a Covid. Una vita distrutta in pochi giorni?
«Guarda per me l’importante era resistere e reagire a quella sequela di avvenimenti infausti che stavano segnando la mia vita. Niguarda, inoltre, è il luogo dove è morta la mia mamma, io ero “piccolo” avevo appena 21 anni e lei ne aveva solamente 47, due operazioni al cuore e poi è andata via e così per me è stato un fare a pugni con me stesso, con i miei ricordi, con quel senso di angoscia. Ma d’un tratto, Luca mi ha salvato la vita».

Parli di Luca tuo figlio?
«Certamente. Era agosto del 2016 ed eravamo in vacanza in Spagna, a Palma di Maiorca, avevamo preso in affitto una casa con la piscina. Una sera dopo cena eravamo tutti dentro a fare qualcosa, Helene, mia moglie, stava in cucina, Luca gli girava intorno ed Andrea, che aveva un anno, era nel passeggino a bere il suo biberon di latte. Ad un certo punto Luca disse "vado a fare la pipì" il bagno era vicino alla cucina e nessuno poteva immaginare che in realtà avrebbe cambiato il suo percorso uscendo in giardino. Dopo pochissimi attimi, Helene iniziò a gridare "Luca, Luca, dove sei?" e mi disse di aver sentito un freddo trapassarle la schiena, una brutta sensazione che l’ha allarmata».

Ma dove era andato tuo figlio?
«Luca continuava a non rispondere e ci assalì la disperazione e d’istinto, insieme a mio nipote Niccolò, corremmo in giardino, verso la piscina e lì trovammo Luca che galleggiava a testa in giù. Lo tirammo fuori ma Luca non c’era più, gli occhi sbarrati verso il nulla il corpo bianco e gelido e le vene blu. Quella immagine non la dimenticherò mai».

E poi Ambrogio cosa accadde?
«Mia moglie urlava senza sosta avevamo la certezza che Luca era morto. A quel punto iniziai con tutto il mio amore, con tutta la mia forza, guidato dai miei angeli a praticargli un massaggio cardiaco e subito accanto a me mio fratello Luigi che gli faceva la respirazione bocca a bocca ma non c’era verso di rianimarlo, Luca non reagiva. Il tempo scorreva e nulla cambiava. Mi travolse la disperazione, quella di un padre che vede suo figlio senza segni di vita. Mi fermai. Mio fratello, con una forza antica, diede un pugno al bordo piscina e gridò con una forza e così insieme ricominciammo a fare tutto da capo. Dopo poco Luca ha iniziato a muovere le labbra, poi a tossire. Luca il 17 agosto del 2016 è rinato».

E così quando eri a Niguarda per il Covid hai rivissuto questi momenti?
«Ho percepito che stavo vivendo lo stesso vissuto del mio piccolo eroe perché mi hanno attaccato all’ossigeno ed accanto a me c’era la stessa macchina che emanava gli stessi rumori di quella lontana notte. Allora ho iniziato a reagire, mi sono detto che dovevo tornare a casa dai miei bambini, non dovevo mollare, per Luca e per Andrea, per Helene, per tutta la mia famiglia. Lo dovevo alle persone che amo. La vita è bella e dopo aver ricevuto questo dono non sono quindi autorizzato a non amarla, nonostante tutto».

Ambrogio Crespi oggi è un uomo libero in attesa della grazia del Presidente della Repubblica. Una delle frasi di Crespi è «se vuoi combattere un fenomeno che ha radici storiche così consolidate nella cultura di un paese, non puoi pensare di vincere la guerra solo con la repressione, devi educare, devi minare geneticamente i presupposti culturali in cui la subcultura mafiosa, nasce e si sviluppa». Ambrogio Crespi non può interrompere il suo lavoro di regista contro le mafie è diventato ormai un simbolo ed anche nelle proiezioni nelle piazze d’Italia del film «Terra mia», da lui diretto, si sente forte la personalità di un uomo probo ed utile alla comunità. L’arte non si può fermare ed anche saper comunicare è un’arte indispensabile che collabora a combattere la cultura mafiosa.

 

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