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Cambiamoci. Con la ritrovata libertà buttiamo via la retorica

Maria Sole Sanasi d'Arpe
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Cambiamoci. Questa della ritrovata libertà sarebbe anche una buona occasione per lavarci. Non parlo di docce, di pulizia in senso stretto e nemmeno di epocali rivoluzioni fra coscienza e spirito – ma di levarci di dosso lo sporco della retorica. Quella più banale e stucchevole nel suo qualunquismo. Ecco allora sorgere spontanea una considerazione. Qual è la prima delle innumerevoli forme di retorica ad esser venuta meno in questi ultimi particolarissimi mesi? Che cosa abbiamo scaricato senza neanche accorgercene dopo i primi momenti di panico, di successiva comprensione e di conseguente adattamento? E, ancora meglio, contro che cosa abbiamo fatto blocco tutti insieme come per un tacito ed unanime accordo prima ancora che potesse metter fuori la testa?

Ve lo dico io: contro il populismo, la peggiore delle retoriche, che supera di gran lunga in inanità quella del buonismo e del politically correct; più o meno vicine s-facce-ttature della stessa medaglia. La retorica che ci riempie di sicurezza illusoria, effimera quanto il dito puntato sempre contro i soliti capri espiatori: i giovani, casus belli per antonomasia; i giovani che escono, l’assembramento di giovani, i giovani che vivono. Quella che si serve di parole carezzevoli, svuotate della benché minima traccia di contenuto. E le parole, adesso più che mai, sono importanti; meritano che gli si attribuisca ciascuna un determinato peso. Meritano di corrispondere ad un significato. E per inciso ve lo dice (anzi, ve lo scrive) una che sta montando – nel vero senso del termine - questo pezzo parola per parola con la tastiera del pc rotta, che utilizza quella a schermo in attesa del ricambio e che data la ben nota scomodità della suddetta, ha imparato a conoscere il peso specifico di ogni lettera da digitare con il solo indice destro. Invece di pensare quindi a cambiare il mondo – che resta una frase fatta – proviamo prima a concentrarci su di noi, senza guardare l’altro e cercare un colpevole a tutti i costi. Sui grandi piccoli cambiamenti (e non fasulli stravolgimenti!) che ognuno di noi può chiedere a se stesso; o che possono nascere in noi addirittura spontaneamente. Come lo è stato il naturale allontanamento dal populismo più stantio.

Non vale sempre il detto che A communi observantia non est recedendum (non ci si deve allontanare dall’opinione comune). La situazione cui siamo stati costretti, ci ha imposto volenti o nolenti una differente profondità di riflessione. Ci ha obbligato in qualche modo – seppure il più drastico – a riflettere; a pensare con la nostra testa. La routine e la pappa pronta che addormenta le menti e ci fa credere alla favola infiocchettata dal miglior offerente, s’è spezzata. Abbiamo dovuto resettarci e reimparare l’arte di arrangiarci. E sforzarci di pensare a come fare, ogni giorno. Tutto così nuovo, inaspettato ed imprevisto che non c’è stato nessuno pronto a prometterci di farlo per noi: a dirci come e a che cosa avremmo dovuto pensare. E se anche qualcuno ci ha immancabilmente provato comme d’habitude, ha fortunatamente per tutti raccolto scarso consenso. Tutto ciò indicativo del fatto che la retorica non la reggiamo più; che del populismo e dei populisti da due soldi non sappiamo che farcene quando le cose diventano serie, quando il gioco si fa duro. Ecco, appunto: “quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”. E finora non abbiamo potuto che constatare che i soli duri nel gioco della vita, della sopravvivenza di ogni giorno siamo stati tutti noi, voi che state leggendo adesso. Senza barriere generazionali: niente giovani, niente vecchi; abbiamo ricoperto tutti i ruoli di tutti indistintamente. Siamo stati i figli di nessuno investiti di responsabilità e siamo diventati i genitori di noi stessi: quando abbiamo dovuto chiudere o fermare le nostre attività, occuparci ogni giorno dei nostri cari, accudire ed intrattenere da mane a sera i nostri bambini, rincuorare i nostri affetti più fragili, scontrarci con le nostre debolezze messe a nudo e ben distinte davanti agli occhi, mantenere i nervi saldi, l’equilibrio e lo spirito seppure soltanto con un’idea appannata di futuro tra le mani. Forse è stato proprio tutto questo realismo che c’è piovuto addosso a farceli riaprire gli occhi. Il silenzio che ha avvolto le strade e le piazze delle nostre città ci ha sorpreso nella sua ambivalenza: insieme con il dolore che si portava dentro, ci ha insegnato la sua importanza; il suo valore, la maestà del rispetto che comporta, il dovere di tacere. Dovere che fa appello al buon senso e allo spessore etico di ciascuno di noi ma che è anche allo stesso modo un potere; forse il potere che più necessita di autonomia intellettuale e di una certa tensione morale.

E mentre pesavamo sulla bilancia con grande onestà cosa fosse davvero importante, cosa dire o tacere, chi e che cosa ascoltare o ignorare - ci è parso chiaro ad un tratto anche che cosa buttare: non c’è più posto per vacue promesse, per bugie grossolane, per l’incompetenza tracotante di chi ci spinge ad incolparci e giudicarci l’un l’altro, a prendere distanze spirituali più che fisiche di fronte a tanta nuda verità. 

 

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