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Via Poma: c'era segatura sui calzini di Simonetta

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Raniero Busco

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Un racconto a due voci. Quella della cronista d'assalto, scrupolosa, tenace, curiosa, anticonformista. E quella della moglie dell'indagato, poi imputato, infine condannato in primo grado per aver ucciso, con crudeltà e un movente irrisorio, la sua ex fidanzata. Una donna coraggiosa e incredula. Disperata per gli esiti devastanti di un processo celebrato vent'anni dopo il delitto, eppure fiduciosa, convinta che la verità sia dalla parte del suo uomo. Intellettualmente onesta, tanto da cedere al dubbio e da non «escludere niente», da pensare «pure a ciò che non» dovrebbe e non vorrebbe pensare. È «Al di là di ogni ragionevole dubbio. Il racconto di via Poma» (Aliberti editore; pag. 213; euro 16,50), scritto dalla giornalista Raffaella Fanelli e da Roberta Milletarì, la commessa di Coin che a un anno dall'assassinio di Simonetta Cesaroni ha conosciuto il motorista dell'Alitalia Raniero Busco, che l'ha sposato nel '98 e ci ha fatto due figli, i gemelli Riccardo e Valerio, ai quali è dedicato. Una donna che ha lottato per impedire che al marito venisse incollata l'etichetta di mostro. E che continua a combattere per cancellarla. Un libro che pone molte domande e offre almeno due «notizie», cioè due elementi nuovi sfuggiti alle inflazionate cronache del fattaccio di sangue perpetrato il 7 agosto 1990 negli uffici regionali Aiag, che allora avevano sede nel rione umbertino di Prati. La prima riguarda le vacanze di Busco. Nelle motivazioni del verdetto i giudici scrivono che Raniero quel maledetto martedì avrebbe telefonato («È verosimile...») a Simonetta per incontrarla in via Poma, visto che «egli sarebbe partito senza di lei per la Sardegna il giorno successivo». Ebbene il meccanico (purtroppo dopo il processo) ha trovato in un vecchio scatolone un foglio «in originale delle timbrature Alitalia (...) con tanto di matricola, orari e ritardi, nonché presenze». Il documento dimostra che Busco andò in ferie il 17 agosto, dieci giorni dopo l'omicidio. La seconda emerge proprio dalle motivazioni. A pagina 18 si parla dei calzini della vittima. E si legge che sull'indumento, uno dei pochi trovati addosso alla ragazza, «si rileva (...) la presenza di piccoli trucioli di segatura». La segatura, come molti sanno, serve ad assorbire i liquidi durante un'opera di pulizia. Ma l'accusa ha sostenuto che quest'opera venne eseguita in modo sommario con gli stessi vestiti della poveretta, poi fatti sparire. Non con una tecnica «professionale», che presuppone la necessità dell'assassino di non lasciare tracce in vista dell'asportazione del cadavere. Le domande, invece, sono tante. Sulla porta della stanza che vide l'agonia della contabile c'era anche sangue del gruppo A. Quello di Busco e della Cesaroni è Zero. Di chi è allora quella traccia ematica? E ancora: la sera in cui Paola Cesaroni va alla ricerca della sorella e si rivolge a Salvatore Volponi, il datore di lavoro di Simona nega di sapere dove si trovi la sede Aiag. Ma al pm Catalani, primo titolare delle indagini, dirà che conosceva il numero di telefono di via Poma. Lo ribadirà vent'anni più tardi in dibattimneto. Ma perchè, quella sera, non chiamò il 12 della Sip per avere l'indirizzo esatto? E, soprattutto, perché nelle benedette motivazioni c'è scritto che «Volponi non aveva il numero di telefono»? Potremmo andare avanti a lungo. Tra le tante cose sconcertanti a sconcertare di più è che, malgrado la distanza tra i fatti e il dibattimento, i giudici non hanno risposto a questi interrogativi. Lo faranno, probabilmente, i loro colleghi d'Assise d'Appello in secondo grado. Intanto, però, sul meccanico di Morena pesa come un macigno la condanna a 24 anni di reclusione per omicidio volontario. E l'unica cosa certa è che in aula non è stato fugato quel «ragionevole dubbio» alla base del diritto penale. E della vera Giustizia.

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