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Gonzalo Villar: "Giocavo alla playstation con Dzeko, ora gli dico a chi passare la palla. Totti, il futuro, la Champions: vi dico tutto"

Alessandro Austini
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Il talento è una dote di famiglia. Sbarcato da perfetto sconosciuto dalla Serie B spagnola, Gonzalo Villar si è preso la Roma nel giro di un anno e aspetta che il fratellino Javi diventi bravo come lui. Dietro questo regista che non perde mai un pallone e fa impazzire i romanisti, c’è un ragazzo normale. Quindi speciale nel mondo del calcio. Si informa su Twitter, va all’università, non pubblica foto con fidanzate e pensa soprattutto a giocare. Villar sceglie Il Tempo per raccontare come gli è cambiata la vita. Ed è solo l’inizio. 

Che momento è per lei e per la squadra?
«A livello personale è buonissimo. In parte me l’aspettavo, sin dal primo giorno volevo diventare un giocatore importante nella Roma, pur sapendo quanto fosse difficile. Esserlo diventato adesso è un qualcosa di incredibile. Anche per la squadra è un buon periodo, ma guardiamo partita dopo partita. Ora pensiamo a fare un buon risultato nella gara di andata di Europa League, poi ci ritufferemo sul campionato».

A cosa punta la Roma?
«Adesso siamo terzi e vogliamo mirare al secondo posto. Guardando sempre davanti possiamo raggiungere a fine stagione il nostro obiettivo che è quello di riportare la Roma in Champions».

E in Europa League?

«Inutile guardare troppo avanti, affrontiamo un avversario forte come il Braga che milita in un campionato che non conosciamo bene, sarà una partita difficile».

Cosa sarebbe disposto a fare per vincere la coppa?
«Mi taglio i capelli a zero. Anzi a "uno". Non l’ho mai fatto».

Perché non vincete mai contro le grandi squadre?
«Ne parliamo molto fra di noi, ma ogni partita è stata diversa. Una volta un errore, una volta non siamo concreti, un’altra tiriamo troppo poco. Non è che abbiamo iniziato tutte quelle partite e abbiamo preso tre gol. Forse subentra un problema a livello mentale, come se questa voglia di dover battere una big ci faccia scattare qualcosa nella testa. Ci mancano piccoli dettagli, la Juventus ad esempio ha segnato alla prima occasione, a noi è mancata concretezza ma un passo in avanti lo abbiamo fatto».

Che è successo in Coppa Italia?
«È stata una giornata sbagliata, forse avevamo ancora nella testa il derby. Prendi un gol subito e poi un altro. Se giochiamo quella partita dieci volte, nove la vinciamo. Abbiamo avuto occasioni per segnare il 3-2 che di solito non falliamo, poi nei supplementari due espulsi e la gara è diventata dura. Ma ora è già il passato».

Vi siete resi conto in campo delle sei sostituzioni?
«Io non lo sapevo, in Spagna ad esempio è possibile fare un sesto cambio ai supplementari. Ma abbiamo perso in campo ed è colpa di noi giocatori. Poi c’è stato un errore umano. Non deve, ma può succedere. Ho 22 anni e posso sbagliare, come l’ex team manager Gianluca Gombar che ne ha 27. Tutti hanno scritto che abbiamo perso a tavolino, ma la realtà è che in campo è finita 4-2».

Siete cinque spagnoli nella Roma, una squadra nella squadra.
«Siamo una piccola famiglia che parla la stessa lingua, compresi Fazio e Pastore. Con Borja Mayoral e Carles Perez siamo più giovani e uniti, ma stiamo tutti insieme».

Cosa pensa della situazione di Dzeko?
«Non ci piace parlare di queste cose fuori. Dico solo che Dzeko è un giocatore pazzesco e lo sceglievo da piccolo alla PlayStation».

E adesso gli indica con il dito i passaggi in campo...
«È la vita, sono diventato un joystic nella realtà! Ma se dico a Edin a chi darla, fa bene a seguirmi (ride, ndr)».

I gol sono il suo punto debole?
«È vero. In questa posizione di regista non ho molte occasioni di entrare in area, magari scarico il pallone sulla fascia a Spinazzola, penso di inserirmi, alzo la testa e vedo Veretout che sta già in area. A quel punto mi fermo, perché devo pensare alla marcatura preventiva, altrimenti se parte un contropiede prendiamo gol. Qualche volta prima della partita dico a Jordan: "Mi raccomando alterniamoci ogni tanto". Lui dice "sì sì" ma non lo fa mai e in area ci va sempre lui».

Non potrebbe tirare di più da fuori area?
«Dopo l’allenamento mi fermo a scommettere con i compagni spagnoli sui tiri. La verità è che io sono più votato al passaggio, è una cosa che ho dentro di me. Se vedo un compagno libero la passo, non calcio in porta. Ma è vero che ogni tanto dovrei essere un po’ più egoista».

Oltre a giocare bene, gesticola molto in campo. Ci spiega perché?
«In campo metto tanta passione e non riesco a non far vedere come mi sento durante la partita. Se non arrivo a fare un tackle mi metto le mani tra i capelli. Sono molto espressivo con le mani, lo faccio sin da quando ero piccolo. Cerco di aiutare i miei compagni dando indicazioni con le mani, ad esempio se sono pressato indico comunque il mio piede per farmi dare lì la palla, poi ci penso io a girarla. Mi piace tanto gesticolare, i miei amici mi prendono in giro perché dicono che non sto mai fermo».

Petrachi lo sente ancora?
«No, ma lo devo ringraziare per la fiducia che ha avuto in me, mi ha portato qui dalla Serie B spagnola».

Il suo rapporto con Totti come è nato?
«Appena sono arrivato a Roma l’ho incontrato per caso in un ristorante, ero lì con alcuni amici e lui era seduto a un tavolo vicino. Gli ho chiesto se potevamo fare una foto insieme e non credo lui sapesse chi fossi. Poi ci siamo visti, siamo andati a pranzo insieme ed è stato un piacere ascoltare tutte le sue storie. Sentirmele raccontare direttamente da un giocatore come Totti è stato incredibile, la mia vita è cambiata tanto negli ultimi mesi».

In cosa? 
«La gente a Roma mi vuole bene, lo sento, mi fermano ovunque per fare le foto e mi dicono cose bellissime. In Spagna non c’è niente di simile, non esiste nessuna città così legata a una squadra, neppure Madrid. Se giochi nella Roma diventi quasi una divinità. Vai a fare la spesa e tutti ti parlano e ti incoraggiano. Lo trovo bello».

Può diventare un problema troppa pressione? Per questo si vince poco qui?
«Non credo. Semmai diversi giocatori preferiscono non fare passeggiate in centro per non essere fermati continuamente. Parlo a livello personale, non ho mai negato una foto perché sono stato un tifoso anche io, però tante volte ti piacerebbe essere meno conosciuto per poter uscire con gli amici. A me piace fare la vita normale di un ragazzo giovane, quello che fanno tutti i ragazzi della mia età».

A Roma ha trovato anche l’amore?
«La mia vita sentimentale è ancora segreta».

Con le ragazze va meglio lei o Zaniolo?
«Meglio non rispondere a questa domanda! (ride, ndr)».

Punta all’Europeo Under 21?
«Le ultime due volte non mi hanno chiamato, io devo pensare a dare il meglio e devo farlo nella Roma. Ovviamente sarebbe un piacere essere convocato o addirittura essere chiamato dalla nazionale maggiore per rappresentare la Spagna. Per me è un sogno e un obiettivo incredibile. Ma ora penso alla Roma, manca tanto».

Luis Enrique poi l’ha vista quella partita su Dazn come gli chiesto di fare su Twitter?
«Quello era un gioco, sono un tipo sempre sorridente, mi piace scherzare nella vita e alleggerire le cose. Quando si lavora ok, ma non si può essere sempre seri. Devo dire che quel tweet è piaciuto a tanti, ma il mio social media manager non era troppo contento».

Si confronta sempre con lui?
«In generale scrivo direttamente io sui social, non mi piace che qualcuno lo faccia per mio conto, ci metto la firma e il volto. Ma è utile confrontarmi ogni tanto su cosa è meglio pubblicare perché ci legge tanta gente».

È l’unico calciatore che usa spesso Twitter. Come mai?
«Mi piace perché puoi leggere in un attimo tutte le notizie dal mondo. Non scrivo tanto ma mi piace tenermi informato sul calcio italiano, spagnolo e sul resto».

 

 

Al suo contratto ci pensa?
«Sono tranquillo perché sono felice qui e quando fai le cose fatte bene, il resto arriva da solo. Ho un buon rapporto con Tiago Pinto e con le persone che lavorano per me».

Come e dove si immagina tra cinque anni?
«Magari come uno dei calciatori più importanti della Roma, però in una Roma forte che lotta ogni anno per lo scudetto e che compete in Champions League. Adesso pensiamo partita per partita, ma a lungo termine abbiamo un’ambizione più alta».

Quindi non si vede altrove?
«A me piacerebbe crescere qui, vedo alcuni calciatori giovani qui come Zaniolo, Pellegrini, Ibanez, Mancini o altri che tra due-tre anni, quando saremo tutti più maturi, possono formare una squadra che lotta per vincere».

Con Fonseca?
«Sì, non posso chiedere altro a lui, lo ringrazio per la fiducia che mi sta dando».

Quando ha capito che era vicina la svolta?
«Sono arrivato a fine gennaio 2020, poi c’è stato il lockdown. È stata dura, non c’era la mia famiglia qui e sono rimasto dentro casa da solo due mesi. Quando è ripreso il campionato non giocavo mai, al massimo 7-8 minuti alla fine delle partite. Ma una delle qualità che mi riconosco è la forza mentale. Non mi sono mai allenato a testa bassa pensando che tanto non avrei giocato. Quindi è arrivato il mio momento, grazie a Dio mi sono fatto trovare pronto per sfruttare l’occasione. Giocavo inizialmente solo in Europa League, ma volevo confrontarmi con la Serie A. Contro il Parma a novembre ho fatto una bella partita, abbiamo vinto e forse lì ho iniziato a pensare che il mister poteva ritenermi un giocatore importante».

Come va l’università?
«Studiare ti aiuta a livello mentale, abbiamo tanto tempo libero dopo l’allenamento. I miei genitori mi hanno sempre a non pensare solo al calcio, senza di loro forse non lo avrei fatto. Ci provo, non dico bugie, è difficile che un calciatore che gioca nella Roma trovi la voglia di mettersi a studiare piuttosto che sulla PlayStation e succede anche a me. Nel primo semestre avevamo sei esami, i primi sono andati bene, gli altri non tanto, ora vediamo i prossimi».

Anche suo fratello fa il centrocampista. Vi ritroverete insieme un giorno?
«Sarebbe un sogno. Lui gioca davvero bene, ha 17 anni, tra due-tre anni diventerà forte. Ha qualità, è un po’ come me, non perde mai la palla, dobbiamo chiedere a mio papà come ha fatto! Lui giocava più a tennis, ora segue noi».

La Roma è molto impegnata nel sociale. 
«Il Club con la sua Fondazione Roma Cares ha organizzato molte iniziative e noi calciatori abbiamo il dovere di dare il nostro contributo. Farlo in una città dove il legame tra la gente e la squadra è così forte è doppiamente importante e bello».

(hanno collaborato Filippo Biafora ed Emanuele Zotti)

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