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Baptista, sì al Malaga

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Poiera stata la volta delle fiabe, Pollicino a procurare una brutta fine all'Orco, perfino la storia di Biancaneve, che per sterilizzare la Regina superba e malvagia aveva però dovuto ricorrere a sette piccoletti. L'anno calcistico, al quale stiamo per rivolgere l'addio, celebra il rito della resa dei muscoli possenti, assegna la laurea con lode al talento e all'estro racchiuso in contenitori della dimensione, ma anche dell'intrinseco pregio, di autentici diamanti. Reclama il proscenio e l'ovazione di sortita la Spagna, il titolo mondiale è il fiore all'occhiello di una stagione accompagnata da unanimi consensi. Le cifre rappresentano molto, ma non tutto: se è vero che la Roma, per fare un esempio vicino, ha il primato dei punti per il calcio nazionale, senza che la sua bacheca si sia arricchita di un solo trofeo. Non serve il soccorso della matematica al calcio spagnolo, sono le immagini a proporsi all'ammirazione. L'evento più atteso era stato logicamente il Primo Mondiale celebrato dall'Africa, le suggestioni ambientali più forti e solenni perfino dei motivi tecnici. Le cartoline dal Sudafrica, a cominciare dal volto di Nelson Mandela, simbolo di riscatto per l'intera umanità, restano indimenticabili: dai paesaggi alla gente, dalla musica alla serenità degli stadi. Nessuno dimenticherà la Waka Waka, ma neanche qualcosa di meno accattivante come le vuvuzelas e perfino quello Jabulani incubo dei portieri. Ha vinto la Spagna, che due anni prima era tornata a conquistare un primo piano internazionle con il titolo europeo, rompendo un sortilegio risalente a quasi mezzo secolo prima, il 1964, anche allora a livello continentale. Ma il Mondiale va ricordato, prima di tutto, come quello del naufragio di molte, troppe, grandi favorite della vigilia. Non soltanto i colossi del Sud America, Brasile e Argentina, arrivati almeno ai quarti di finale, ma l'Inghilterra uscita agli ottavi anche con la complicità di Larrionda (il suo abbaglio, come quello del nostro Rosetti, da «top horror» del torneo), e soprattutto, la finaliste del Mondiale di Germania. Era forse meno annunciato, il disastro della Francia, uscita di scena con la coda di polemiche feroci, rispetto a quello di un'Italia campione in carica, sulla quale in patria nessuno avrebbe rischiato un euro. Destino comune, la guida di tecnici incontrastati titolari di antipatie generali, suscitate da atteggiamenti umorali e da arroganza a livelli stratosferici. A Domenech l'ultimo sorriso lo aveva regalato la mamma, quando però era in culla e non aveva potuto esprimere gli spigoli del suo carattere. Marcello Lippi aveva riportato un Mondiale in Italia dopo ventiquattro anni, ma erano state sufficienti le scelte delle vigilia, su tutte l'ostracismo a Cassano, per far precipitare i suoi livelli di popolarità. Riconoscenza per gli eroi di Berlino, una mezza giustificazione, nessuna scusa invece per l'assoluta renitenza al dialogo e la caparbietà nel difendere l'isolamento di un gruppo ormai sfiduciato da tutti. La vecchia Europa, partita con così palesi stenti, avrebbe chiuso in trionfo, una volta elusa l'insidia dell'Argentina di Leonel Messi, forse il protagonista più atteso, e quella del Brasile di un irriconoscibile Kakà. A difendere il prestigio sudamericano sarebbe rimasto il solo Uruguay, ricco più di storia che di talento, in semifinale si sarebbe arresa un'altra puntuale protagonista della competizione come la Germania. A giocarsi per la terza volta un titolo mai raggiunto sarebbe arrivata l'Olanda di Sneijder, ma la finale avrebbe incoronato la squadra più forte e più spettacolare. Sul tetto del mondo la Spagna di Del Bosque, per la gioia dell'uomo normale, i valori fisici e atletici che avevano dominato a lungo il calcio internazionale ribaltati dal genio dei piccoletti. Andres Iniesta avrebbe risolto la finale, guadagnandosi la «pole» nella corsa al Pallone d'Oro, che con altrettanti meriti avrebbe potuto vedersi assegnare Xavi, le due perle più preziose in un diadema di artisti della palla rotonda. A livello di club, impossibile negare il gradino più alto del podio alla «triplete» dell'Inter: firmata da fuoriclasse autentici, da Eto'o a Milito, a Sneijder, a Julio Cesar. Ma naturalmente rivendicata da José Mourinho con l'autostima senza confini che è una caratteristica del tecnico portoghese. Dote illustrata anche dalla disinvoltura con la quale, subito dopo il trionfo nella finale di Champions sul Bayern Monaco, avrebbe annunciato il trasferimento alla corte di Florentino Perez, per riportare il Real Madrid a conquiste da tempo dimenticate, nella Liga ma soprattutto in Europa. Personaggio che da queste parti dovrebbe essere molto rimpianto, invece di ricevere attacchi troppo platealmente macchiati dall'invidia, per avere rimosso le barriere dell'ìpocrisia e della banalità: che erano state, e sarebbero tornate ad essere, il connotato della comunicazione calcistica nazionale. Poi, senza di lui, un altro «titulo» prestigioso avrebbe arricchito le bacheche interiste: paradossalmente producendo, però, la reazione nervosa di Benitez contro la conversione al risparmio della società e il colpo di scena finale, il trasferimento di Leonardo da una panchina milanese a quella opposta. Se alle modeste glorie dell'Italia calcistica nel bilancio annuale aveva contribuito in misura determinante una squadra che di italiano aveva ben poco, dall'allenatore a una rosa straniera al novanta per cento e forse più, oltre i confini qualcosa di buono da celebrare lo spirito nazionalistico lo ha trovato. L'Europa più illustre ha proposto ai vertici formazioni di straordinario prestigio, come il Barcellona di Guardiola in Spagna, il Bayern Monaco di Van Gaal in Germania. Ma soprattutto, nella Premier League, il Chelsea che Carlo Ancelotti ha guidato a un autentico trionfo, dando scacco matto all'eterno United di Ferguson e all'Arsenal di Wenger. Senza dimenticare, tra le non molte note liete, la celebrazione del nuovo Zar di tutte le Russie, Luciano Spalletti: che molti rimpianti aveva suscitato al momento del suo addio da Roma dopo stagioni indimenticabili, e che è andato dettare legge a San Pietroburgo, il suo Zenit dominatore del torneo e campione nazionale con largo anticipo.

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