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Il bluff di Umberto I

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Quando,nel 1779, Edward Smith Stanley, dodicesimo conte di Derby e provetto cavaliere, volle chiamare in qualche modo quella corsa che sua moglie lady Hamilton - appassionata di cavalli e di avventure extraconiugali - l'aveva spinto ad organizzare, si trovò a superare l'ostacolo, di sir Charles Bunbury, pure lui voglioso di dare il proprio cognome al nuovo premio per puledri di tre anni, la contesa fu risolta, in perfetto stile inglese, con il lancio di una moneta. «Sua Maestà o lo stemma?», chiese lord Derby tenendo in mano mezza ghinea (8,2 grammi d'oro) con il profilo di re Giorgio su una faccia e l'emblema sull'altra. Bunbury scelse lo stemma. «Sua Maestà, che Dio lo salvi», disse lord Derby mostrando la moneta dopo il lancio e battezzò con il proprio nome quella che sarebbe divenuta la gara ippica più prestigiosa del mondo. Se fosse venuto stemma oggi si chiamerebbe Bunbury. Giovedì 24 aprile 1884 le finestre del Quirinale si spalancarono su una giornata dalla classica variabilità primaverile. Era il giorno del primo Derby Reale voluto (e pagato) da Umberto I e stava piovendo. A mezzogiorno uscì un sole cocente ma dopo mezz'ora tornò la pioggia, rada e insistente, e non andò più via. Ma la Società delle Corse - imbottita di nobili, imprenditori e qualche faccendiere - aveva previsto due tribune, una per i soci (con sotto uffici, telegrafo e pesage) e l'altra a pagamento; in mezzo il padiglione reale. Prato e bordo pista erano pieni di buffet per tutte le borse. Umberto I arrivò poco dopo le 2, guidando personalmente un «phaeton» a due cavalli; poi giunsero, su un tiro a quattro, la regina Margherita (con una splendida toilette in stoffa giapponese) ed il principino Vittorio Emanuele. Il Derby si disputò regolarmente e lo vinse Andreina, una baia che veniva da Pisa. Ma a seguire, per il quotidiano romano «La Tribuna», il Nastro Azzurro all'ippodromo c'era Gabriele D'Annunzio che aveva 21 anni appena compiuti e una moglie sposata l'anno prima a Palazzo Altemps per riparare una «fuitina». In sella D'Annunzio era un disastro, pur di frequentare l'alta società partecipava alla caccia alla volpe ma finiva regolarmente (e dolorosamente) a terra. Sulla tribuna di Capannelle invece era tutta un'altra cosa, quello era il suo ambiente: mondanità, nobiltà e donne da corteggiare. Il futuro Vate aveva però anche un fiuto giornalistico che gli fece subito scoprire qualche altarino. Il giorno dopo «La Tribuna» spiazzò tutti: la scuderia Thomas Rook era un prestanome, il vero proprietario di Andreina era Umberto I. Che però generosamente lasciò all'inglese-pisano e la sua numerosa famiglia tutto il montepremi. Enr. Ton.

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