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"Ho la leucemia": confessione choc di Kereem Abdul Jabbar

Kareem Abdul-Jabbar con la maglia dei Los Angeles Lakers

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Quasi un anno a combattere contro un avversario infido, strisciante, silenzioso. Niente a che vedere con i piccoli e fastidiosi playmaker come Tiny Archibald dei Celtics o Maurice Cheeks dei Sixers, che mille volte avrà stoppato, o con quelle masse di muscoli, come Robert Parish e Moses Malone, con cui erano battaglie fatte di gomiti e lealtà. Kareem Abdul-Jaabar, ex stella dei Lakers e della Nba, oggi sessantaduenne, la nuova partita l'ha dovuta iniziare a giocare poco meno di un anno fa, lontano dal parquet, quando ha cominciato ad accusare «vampate di calore e sudorazione», come lui stesso ha dichiarato nelle scorse ore. Un problema dell'età, il primo banale e rassicurante pensiero, quasi a voler esorcizzare ogni altra possibilità. Poi sono arrivati i controlli, più accurati, e una sentenza durissima, di quelle che sembrano non poter lasciare scampo: leucemia mieloide cronica. E allora lo sconforto, la disperazione, la sensazione d'impotenza e l'idea che il futuro potesse accorciarsi a pochi giorni. «All'inizio mi sono spaventato - ha dichiarato Kareem Abdul-Jabbar, guardando negli occhi un'America attonita e commossa davanti al suo campione - e ho pensato di avere un solo mese di vita. Allora la mia prima domanda è stata: adesso che mi resta da fare nei giorni che avrò a disposizione?». Poi la voglia di riscossa e di combattere la malattia come lui aveva sempre fatto contro gli avversari, con il numero 33 cucito su quella casacca gialloviola portata con orgoglio sulle spalle in 1.093 partite, per raccogliere poi un nuovo assist, per raccontare al mondo la sua storia e poter urlare forte la sua voglia di vivere. «Io non sono quel tipo di persona che condivide con tutti le questioni private, ma posso aiutare a salvare vite umane e perciò è un mio dovere parlarne», le semplici parole del mito del basket Usa alla stampa del suo paese. Kareem Abdul-Jabbar ha allora raccontato al mondo di come si stia sottoponendo a un trattamento per combattere l'infido nemico, precisando che la prognosi oggi è incoraggiante. Lui è ora portavoce di un'azienda farmaceutica svizzera che produce un farmaco in grado di contrastare la leucemia e vorrebbe che il suo esempio si trasformasse in un messaggio forte verso tutti coloro che stanno, come lui, lottando per sconfiggere una malattia. E poi il pensiero che il destino è spesso strano. Eccoli di nuovo assieme, accomunati dal destino di una diagnosi terribile, lui, the «big fella» che nello slang americano sta per omone, e vuoi mettere visti i suoi 218 centimetro d'altezza, e il compagno, e l'amico di sempre Earvin Magic Johnson, che nel '91 rese pubblica la sua positività all'Hiv. In campo, tra loro, non c'era neppure bisogno di incrociare lo sguardo per capirsi e farsi beffa delle difese avversarie. L'azione era la solita con un assist del 32 per il lungo compagno, per poi ascoltare: ciuff, il suono della retina dopo il gancio cielo, quello sky hook, che è stato il movimento che lo ha reso famoso e su cui ha costruito parte della sua fortuna. «Voglio fare quello che fece il mio amico Magic Johnson quando seppe di avere l'Aids», ha detto il pinnacolo per cui l'Nba inventò l'assurda regola, poi cancellata, che vietava la schiacciata. «Non mi è mai piaciuto parlare della mia vita privata - ha proseguito l'ex pivot dei Lakers - ma credo di poter aiutare a salvare delle vite parlando del mio male. C'è speranza, questa malattia può essere sconfitta. E la vita può continuare a essere quella di prima. Pensate, posso addirittura mangiare thailandese». Peccato che questa malattia non abbia i gomiti affilati di Moses Malone o le capacità di palleggio di Tiny Archibald. Sarebbe stato certamente più semplice per «big fella» affrontarla e sconfiggerla. Ma per battere la leucemia Kareem Abdul-Jabbar sta usando altre armi. A testa alta, come sempre. Un esempio nel basket e nella vita.

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