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Augusto Frasca Quando scorse tra le rocce ghiacciate le spoglie mummificate di un uomo, Conrad Anker comprese di aver risolto parte del mistero inseguito da settantacinque anni.

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Inquel sudario naturale rintracciato dieci anni fa era segnato l'epilogo dell'uomo che aveva tentato tre volte l'assalto alla montagna più alta del mondo e che a quanti gli chiedevano cosa lo spingesse a rischiarvi la vita rispondeva: perché è là. Anker faceva parte della spedizione statunitense salita sull'Everest avendo come unica idea rivelare uno dei misteri insoluti nella storia dell'alpinismo internazionale. Alla terza sfida all'Everest, messa in atto nel 1924 insieme con il connazionale Andrew Irvine, Mallory era stato avvistato l'ultima volta alle 12.50 dell'8 giugno. Da quel momento, nessuna risposta era data a quanti si chiedevano quale esito avesse avuto il tentativo, e se la morte fosse sopravvenuta nella salita o nella discesa del ritorno. Di Irvine, nessuna traccia. Così come, tra i reperti personali appartenenti a Mallory, nessuna traccia s'ebbe della macchina fotografica Kodak, unica testimone dell'eventuale riuscita dell'impresa. Tra i materiali ritrovati assieme al corpo calcinato dell'alpinista, una lattina di carne, una scatola di fiammiferi intatta, un coltellino, occhiali da sole, forbicine da unghie, e una lettera perfettamente conservata alla moglie Ruth. Mistero, dunque, risolto a metà, con un elemento che contribuì ad accrescerne la portata. Esiste infatti una lettera in cui George prometteva alla moglie che avrebbe lasciato la sua foto sulla cima dell'Everest, una volta raggiunta. E tra le carte ritrovate l'1 maggio 1999 mancava la foto di Ruth... Edmund Hillary, che nel 1953, con Norkay Tenzing, fu il primo a raggiungere la vetta, quando ebbe notizia del ritrovamento del corpo di Mallory, dichiarò: «È sempre stato il mio eroe. Anche se ritengo improbabile che ce l'abbia fatta, lui rimane l'uomo dell'Everest».

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