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Al cinema Sergio Rubini racconta i De Filippo

Giulia Bianconi
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«Quella dei De Filippo è la storia tutta italiana di una famiglia, in qualche modo disagiata ed emarginata, che grazie alla coesione, al talento e alla tenacia riesce ad affermarsi». Sergio Rubini ci parla del suo nuovo film da regista «I fratelli De Filippo», prodotto da Pepito con Rai Cinema, che dopo l’anteprima alla Festa del cinema di Roma arriva tre giorni nelle sale, il 13, 14 e 15 dicembre con 01 Distribution. Domenico Pinelli, Anna Ferraioli Ravel e Mario Autore interpretano Peppino, Titina ed Eduardo, figli illegittimi di Eduardo Scarpetta. Quando l'acclamato attore e drammaturgo muore, ai tre non spetta nulla. Il loro riscatto avverrà attraverso il teatro.
Rubini, che legame ha con i De Filippo?
«A 14 anni ho debuttato a teatro interpretando Nennillo di Natale in casa Cupiello. A Bari ha conosciuto Peppino e con il mio gruppo gli abbiamo consegnato la tessera di socio onorario della nostra filodrammatica. Ai tempi ultrasettantenne iniziò a parlarci della loro storia. A distanza di molto tempo ho pensato valesse la pena raccontarla». 
Perché era importante farlo?
«Perché i De Filippo hanno avuto la capacità di trasformare le loro ferite in opportunità. La loro voglia di rivalsa si è svolta su un palcoscenico. Raccontando i De Filippo parlo nel bene e nel male di una famiglia. E noi siamo il Paese della famiglia, la esportiamo in tutto il mondo». 
Chi erano per lei i De Filippo?
«Come i Beatles. Sono sempre stati visti monumentali, polverosi, in bianco e nero, erano invece anche a colori, moderni, traditori. Scarpetta ha riformato il teatro, ma dal punto di vista umano ha fatto tanti guai. Aveva una famiglia di serie A e una di serie B. A Luisa De Filippo non ha lasciato nulla, se non un piccolo vitalizio. Però quest’uomo è stato beffato dai figli, che profondamente feriti avevano voglia di riscatto. Sono riusciti a far dimenticare Scarpetta, ed è stata la loro vendetta più grande».
Eduardo ha saputo trasformare il suo vissuto nelle commedie.
«Ecco la grandezza dell’autore. Lui elaborava quel che vedeva e sentiva. Peppino, invece, era più arrabbiato. Negli anni Settanta scrisse pure un libro svelando la relazione tra loro e Scarpetta». 
Ultimamente al cinema c’è un ritorno del teatro.
«Questo film nasce molto prima della pandemia, ben sette anni fa, ma lo considero un viatico per tornare nei luoghi nella socialità. Eduardo diceva che Napoli è un teatro antico, e che tutti sono attori. Per raccontare questa storia, in modo veritiero, ho avuto bisogno di gente di talento». 
Per i tre fratelli ha scelto nomi non molto noti.
«Avevo bisogno di tre attori autentici. Non ho cercato una somiglianza fisica, ma più interiore. Per Eduardo volevo un ragazzo con carisma, uno sguardo penetrante e dall’aria intellettuale. Peppino doveva essere empatico. Titina una ragazza geniale. Era la più spregiudicata dei tre, è riuscita in un’epoca dove andavano di moda le soubrette a imporsi, pur non essendo bella. Era così moderna negli anni Trenta da avere pure il toy boy».
Ha mai pensato di interpretare lei Scarpetta?
«Onestamente no. Volevo essere a disposizione degli attori in un film così complicato. Ho sempre avuto in mente Giancarlo Giannini. Ha reso Scarpetta come un Mangiafuoco feritore, e con il suo carisma anche erotico e vitale». 
Questo film racconta i De Filippo dal 1900 al 1931. Ma il loro sodalizio andrà avanti fino al 1944. Ha in mente un sequel?
«Ho lavorato con Fellini e lui detestava la parola fine perché i suoi personaggi dovevano vivere anche dopo. In questo mio film ho lasciato una porta aperta. Ho scritto già una seconda parte che spero di realizzare presto».

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