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Marco Prato: "Io succube di Manuel Foffo non ho ucciso Luca Varani"

Il 10 aprile il processo . L'imputato: non sono un mostro

Katia Perrini
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E' stato tra i fatti di cronaca nera, di cui pure la nostra storia recente non è priva, ad aver colpito di più l'opinione pubblica, forse per la presenza contemporanea di perversione, triangolo sessuale, droga e protagonisti giovani e maledetti. Sono passati dodici mesi da quando i carabinieri fecero irruzione nell'appartamento di Manuel Foffo, 29 anni, al Collatino, periferia est di Roma e scoprirono il cadavere di Luca Varani, di sei più giovane. Un festino a base di alcol e fiumi di droga, degenerato poi in un massacro compiuto dal padrone di casa e dal coetaneo Marco Prato, che aveva successivamente tentato il suicidio in un albergo ingerendo dei farmaci. Ora è rinchiuso in attesa di giudizio nel carcere di Velletri e ha scelto per la prima volta di parlare attraverso le pagine del settimanale Panorama. Prato afferma di ricordare tutto di quella notte e ritaglia per sé un ruolo simile a quello che a suo tempo il pm di Perugia Mignini cucì addosso a Raffaele Sollecito (poi sconfessato dai giudici), ovvero di uno spettatore semi passivo che non può o non vuole ribellarsi alla follia omicida del complice e non riesce a fermare la deriva folle che ha assunto una serata dalla parvenza normale e innocua. Manuel Foffo esercitava un indubbio fascino nei suoi confronti e Marco ammette la sua condiscendenza e di non essere riuscito a sottrarsi a quel giogo. Nega, in ogni caso, di aver inferto uno solo colpo a Varani. Un'attenuante con cui spera di evitare l'ergastolo nel processo che inizierà il prossimo 10 aprile e ristabilire, a suo dire, la verità. I sensi di colpa si dividono tra gli eccessi che lo hanno sempre portato «a qualunque esperienza, alla spasmodica ricerca di un uomo come Manuel» e anche quei due bicchieri di vino che bevve per darsi coraggio al primo appuntamento con Foffo levandogli gli ultimi freni inibitori. Nonostante abbia comunque partecipato o non impedito un massacro di tale violenza, Prato non riesce a considerarsi un mostro. Si ritiene un normale trentenne, con la passione per gli uomini e qualche vizietto comune, secondo lui, a tanti altri coetanei. Alcune stravaganze «pruriginose» sarebbero state solo una sorta di contentino ai propri numerosi partners, che gli avrebbero estorto alcune richieste sottoponendolo a una grande violenza psicologica: «A volte si dimentica che dietro un nome c'è una persona reale in carne e ossa - le sue parole che concludono il teorema auto assolutorio - Pure i condannati meritano rispetto, figurarsi un imputato come me. Non sono un mostro, non ho ucciso e troverò un giudice disposto ad ascoltarmi». Nell'intervista c'è spazio anche per una riflessione sulle condizioni della carceri italiane. Prato afferma che il trasferimento da Regina Coeli e Velletri l'ha molto penalizzato; nel penitenziario romano infatti poteva seguire corsi di inglese e francese mentre nella struttura veliterna non ci sono attività da svolgere: «Nessun detenuto è accompagnato da un percorso di riabilitazione che gli consenta di tornare un cittadino, si resta galeotti per sempre e tutto si riduce alla mera espiazione. Io trascorro tutta la giornata sdraiato su una branda». Unico momento di pietas è quando rivela l'intenzione di scrivere una lettera ai genitori di Varani, che hanno perso il loro unico figlio, per giunta tanto desiderato e voluto dopo un lungo e travagliato iter di adozione. Un pensiero naturalmente è rivolto anche al "suo" Manuel al quale consiglia di abbandonare l'odio e restituirgli la propria vita: «Come mi hai lasciato andare a morire quella notte in quell'hotel di Piazza Bologna, ora lasciami vivere e restituisci la verità a quella drammatica notte».

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