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Busco litigò con Simonetta e l'assassinò

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Ormaila tesi dell'accusa è chiara. Raniero Busco, un ventiquattrenne dal temperamento fumantino, irascibile e violento, scopre che la sua fidanzata non prende anticoncenzionali, come invece gli ha fatto credere. Non solo. Di recente ha avuto una perdita ematica che potrebbe essere il campanello d'allarme di un'eventuale gravidanza. Quel martedì pomeriggio di agosto la raggiunge sul posto di lavoro, in via Poma. I due litigano. Lui s'infuria e la tramortisce con un manrovescio al viso. Poi afferra un tagliacarte e la pugnala 29 volte negli occhi, sul seno, sul pube. Infine si dà alla fuga indisturbato e, soprattutto, invisibile. Il pm non l'ha mai detto chiaramente. Ma è questo il filo rosso con il quale, udienza dopo udienza, ha cercato di collegare l'imputato al delitto, tracciando uno dei molti elementi che mancano per poter condannare Busco: il movente. Ieri a sottolinearlo esplicitamente è stata Federica Mondani, legale di Paola Cesaroni. «Uno come Busco, che dice di essersi arrabbiato con i vicini per futili motivi, non si può arrabbiare per cose di questo genere? Lascio a voi la risposta», ha detto. Ma durante la sua deposizione nell'aula-bunker di rebibbia, l'ex fidanzato di Simonetta ha risposto a tono alle contestazioni, sebbene le abbia condite con una serie di «non ricordo» giustificati, però, dal tempo trascorso da quel 7 agosto del '90. «Lei e sua moglie avete gettato sospetti su alcuni suoi amici, sostenendo che avevano litigato con Simonetta e che avrebbero potuto "provarci". Lei ha dichiarato un alibi falso. Ha negato di sapere dove era l'ufficio dell'Aiag di via Poma e invece lo aveva rivelato all'avvocato dei Cesaroni Lucio Molinaro», attacca duro il pm Ilaria Calò. Busco replica tranquillo, senza esitare: «La litigata l'aveva riferita Roberta Foschi, non so perché poi ha smentito e io non ho gettato sospetti suoi miei amici: mi hanno chiesto chi aveva un carattere esuberante e avrebbe potuto fare avances a Simonetta e io ho fatto tre nomi. L'alibi mi è stato chiesto 14 anni dopo l'omicidio e io avevo un certo ricordo. Dissi pure al maresciallo di verificare le cose che avevo detto all'epoca e lui rispose che quel verbale non c'era. Sicuramente ho confuso il giorno». L'accusa non molla: «In attesa di registrare una puntata di Telefono Giallo, lei disse a Molinaro che sapeva dove lavorava la sua fidanzata.. poi lo ha negato. Perché?», insiste Calò. «L'episodio con Molinaro non lo ricordo. E continuo a negare che sapevo dove lavorava Simonetta». Il pm gli rammenta due episodi di liti, in famiglia e con i vicini di casa, per mettere in evidenza la sua indole litigiosa e violenta, chiede dei rapporti sessuali con la vittima («Erano violenti o umilianti per lei?». «No, assolutamente», la replica), vuole sapere se i loro rapporti erano «protetti» o meno e, infine, se fu lui a chiamare casa Cesaroni all'ora di pranzo del 7 agosto. «Simonetta le aveva mentito sulla pillola, perché ancora doveva cominciare a farne uso. Cose così possono generare grosse liti. Avete litigato per questo?». Busco non cede: «Non facevo uso di profilattici e pensavo che Simonetta prendesse la pillola. Non sono stato io a fare quella telefonata. No, non abbiamo litigato». Quindi ricostruisce i suoi movimenti di quel maledetto martedì: turno di notte al lavoro, torna a casa alle otto del mattino, dorme fino alle 13.30, qualche lavoretto nell'officina sotto casa, una puntata al bar Portici di Morena, cena e di nuovo a Fiumicino per lavorare. E ancora: la polizia che lo preleva alle tre del mattino, lo porta in questura, l'interrogatorio. «Mi hanno gettato le faccia le foto del cadavere di Simonetta e mi hanno dato pure un paio di schiaffi», dice. «E lei non ha reagito?», gli domandano. «E che avrei dovuto fare? - risponde lui - Avevo vent'anni, c'erano stato un omicidio e ho pensato che era prassi degli inquirenti comportarsi così. Non ero violento, non ho mai dato morsi a Simonetta. La mia coscienza è pulita». Prima dell'imputato era stato ascoltato Salvatore Volponi. Due i punti da chiarire: a chi si riferiva con quel «bastardo!» subito dopo la scoperta del cadavere e se sapeva che la «sua» impiegata quel giorno lavorava in via Poma. Volponi appare deciso, sereno, preciso. Malgrado i dichiarato problemi psichici che lo hanno tenuto lontano dal processo finora: «Bastardo era un termine generico riferito a chi aveva fatto una cosa del genere. Non ero mai stato in via Poma e non so perché la portiera dice che mi conosceva già». La sentenza si avvicina. La verità si allontana.

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