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Via Poma, processo "rosa" In aula donne contro donne

Simonetta Cesaroni

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  Martedì, lo stesso giorno della settimana in cui Simonetta è stata uccisa, saranno in aula per la prima volta. Che, forse, sarà anche l'unica. Un'udienza «rosa», quella del prossimo 16 febbraio. Alla madre e alla sorella della vittima, infatti, si sommerà la presenza costante delle giurate popolari. E, calcolando anche gli avvocati, il sesso cosiddetto debole potrà contare su cinque «togate» a fronte di quattro uomini. Nel processo per l'omicidio di via Poma è donna la rappresentante dell'accusa, il pubblico ministero Ilaria Calò. Schiva e gentile, sorridente quanto risoluta nell'evitare le domande dei giornalisti. Lo è il presidente della Corte, Evelina Canale, paziente anche quando deve richiamare all'ordine i fotografi che hanno cominciato a premere freneticamente i pulsanti delle loro Nikon prima del suo nullaosta. Lo sono cinque giurati su undici. E perfino i due cancellieri. Lo sono, infine, le uniche «superstiti» della famiglia Cesaroni, Anna e Paola. Da sempre infastidite dal clamore mediatico che ha turbato il loro dolore muto, hanno lasciato a papà Claudio il ruolo di «portavoce». Il compito di fare «pressing» sui magistrati, di spingerli - quando credeva ce ne fosse bisogno - a ridare impulso alle indagini, a imboccare una nuova pista. Claudio non c'è più, se n'è andato il 3 settembre 2005 per colpa di una pancreatite. Nessuno può dire quanto abbia influito il tormento di un lutto senza giustizia (chiunque sia padre può immaginarne l'intensità), ma nessuno può negare che la tragedia abbia pesato sulla malattia. L'ex dipendente della metro romana sarebbe riuscito parzialmente a placare la sua sofferenza vedendo che si era finalmente arrivati a un processo dopo quindici anni di battaglie senza risultati. Al suo posto ci saranno Anna Di Giambattista e la figlia Paola. L'Italia, però, non le vedrà nell'aula-bunker di Rebibbia. Al massimo, fotografi e cameramen potranno immortalarle all'ingresso e all'uscita del tribunale. Il loro legale, Lucio Molinaro, (che per tre lustri è rimasto vicino a papà Claudio e oggi ufficialmente rappresenta la vedova) ha già annunciato che si avvarranno della deroga concessa dal presidente Canale e chiederanno di non essere riprese durante il dibattimento. Nel lungo, immenso salone che ha ospitato processi per terrorismo e mafia e che adesso accoglie la terza Corte d'Assise parleranno della «ragazza con le scarpe da tennis» che stava per andare in vacanza in Sardegna. E di quel martedì pomeriggio di vent'anni fa, quando la videro per l'ultima volta. Donna, per concludere, è la vittima. Ed è superfluo sottolineare che, malgrado il presupposto di imparzialità del collegio giudicante, le donne si sentono «naturalmente» colpite in profondità da un assassinio atroce e a sfondo sessuale come quello del 7 agosto 1990. Ma c'è un'altra donna in aula. Sta a fianco dell'imputato. Lo ha sposato un anno dopo il delitto ed è convintissima della sua innocenza. È una donna forte. L'aggettivo più usato dai cronisti è stato «coraggiosa». Si chiama Manuela Milletarì e difende a pugni chiusi il suo Raniero. Noi non possiamo sapere se, davanti alla legge degli uomini, Busco risulterà colpevole o no. Se nel processo emergerà che Manuela ha ragione, lei e lui avranno subito un duro e immeritato calvario. In caso contrario, per l'imputato e sua moglie si apriranno le porte dell'inferno.

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