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La guerra dei 30 anni della magistratura al centrodestra

Claudio Querques
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Tutto si fa risalire al giorno in cui il «Corriere della Sera» nel 1994 sparò in prima pagina l’ordine a comparire davanti ai giudici di Milano per Silvio Berlusconi che stava inaugurando il G7 a Napoli. Un colpo basso. Di recente Paolo Mieli, in quegli anni direttore in via Solferino, ha lasciato intendere che se tornasse indietro forse non lo rifarebbe. Che i dubbi su quella soffiata che gli arrivò 8 ore prima che i carabinieri recapitassero il provvedimento al legittimo destinatario lo hanno tormentato per anni. Tanto più che nessun giudice lo ha mai chiamato per avere chiarimenti sulla fonte delle sue informazioni. E che forse in quel caso non avrebbe posto il segreto professionale ma fatto nomi e cognomi. Stessi dubbi ha confessato nel suo libro Goffredo Buccini, l’estensore dell’articolo che consegnava l’allora presidente del Consiglio al pubblico ludibrio. Da cronista a strumento involontario di qualche oscuro interesse è un attimo. È lo «spread giudiziario», bellezza. Un’arma letale. Lo scontro tra certa magistratura e il centrodestra: una costante. Dai tempi di Tangentopoli ai giorni nostri la Sinistra ha cercato nei tribunali una sorta di soccorso rosso.

 

 

Oggi Catania, ieri Open Arms: Matteo Salvini chiamato a rispondere di sequestro di persona aggravato. L’avviso di garanzia come clava, mezzo di lotta politica, uso spregiudicato di indagini spesso sfociate nel nulla. Comunque la si pensi sull’argomento immigrazione, la sentenza del giudice civile di Catania che sconfessa l’operato dell’Esecutivo, il tentativo di trasformare il decreto sulle espulsioni accelerate in carta straccia, si aggiunge ad un lunghissimo elenco di invasioni di campo. La «Repubblica dei pm» che colpisce ancora. «L’indipendenza è diventato autogoverno, familismo ed ereditarietà hanno aumentato separatezza ed autoreferenzialità – ebbe a scrivere qualche tempo fa Sabino Cassese nel suo libro sul "Governo dei giudici" –. Ci si attendeva razionalità e si è avuto populismo giudiziario, ci si attendeva giustizia e si sono avuti i giustizieri». Da allora non è cambiato niente, uno stesso meccanismo giudiziario. Una colluttazione che segna da almeno trent’anni la vita del Paese. Uso sconsiderato delle intercettazioni. Frasi origliate che nulla avrebbero a che fare con le indagini. E se all’altro capo del filo c’è un interlocutore di Destra il megafono amplifica. Uno schema collaudato.

 

 

Ci viene in mente un caso limite: Gianfranco Micciché, presunto consumatore di droga e in quanto tale non indagato, finito in prima pagina perché compariva tra i clienti di un noto spacciatore. I magistrati non erano tenuti a divulgare il suo nome contenuto insieme ad altri nell’ordinanza. La sfera della notiziabilità non coincideva con la rilevanza penale del fatto. Un non reato. Risultato: foto in prima pagina, video del pedinamento, mostrificazione. Eccesso di garantismo? Forse. Eppure è proprio in questi casi che il rispetto delle regole da parte della magistratura migliorerebbe il vivere civile. La manutenzione della democrazia del resto passa da piccoli, apparentemente insignificanti, particolari La Sinistra lo ammetta: per un lungo periodo all'Avversario «è stato riservato dai pm un trattamento a parte». Come se adeguarsi all’etica comune e alle norme, non violarle, fosse un impoverimento personale dei giudici. Più il cognome è eclatante più certe garanzie vanno a farsi friggere. La tutela della privacy violata a ripetizione. La gogna possibilmente a senso unico.

 

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