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Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi: cambiamo il Paese

Carlantonio Solimene
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Libertà. Lo ripetono tutti i leader del centrodestra saliti sul palco insieme ieri sera a piazza del Popolo, a Roma. Ognuno, ovviamente, con le sue declinazioni e il suo stile. Con la sua narrazione. Così Silvio Berlusconi, il primo a prendere la parola, invoca il diritto a vivere «in un Paese dove i cittadini non debbano aver paura se a vincere le elezioni sono gli altri». Mentre Matteo Salvini ribadisce la collocazione estera del Paese nel mondo occidentale ma rivendica il diritto di farsi rispettare e non semplicemente «prendere ordini» nei consessi internazionali. E Giorgia Meloni, infine, basa l’intero suo discorso su un’Italia in cui nessuno debba più sentirsi suddito. Degli alleati internazionali, del «mainstream», dello Stato che esige troppe tasse, di chi mette in discussione la democrazia se i cittadini non votano come ci si aspetterebbe.

Ad applaudire i leader c’è una piazza sufficiente piena da poter parlare di successo della mobilitazione. Certo, soprattutto nelle retrovie ci sono spazi vuoti, ma è inevitabile in un’era in cui i comizi oceanici sono solo un ricordo. Nessuno, per dire, ha osato opzionare l’enorme piazza San Giovanni per l’atto conclusivo della campagna. Ma i numeri contano fino a un certo punto. Importava, soprattutto, dare un messaggio d’unità della coalizione. Rispedire al mittente i veleni su alleati pronti ad accoltellarsi alla prima difficoltà. E quel messaggio passa in pieno. «Governeremo insieme per cinque anni» dicono tanto Salvini che Meloni. «Ci vedete qui - aggiunge la leader di Fratelli d’Italia - siamo uniti, abbiamo candidati comuni e lo stesso programma. Mentre, dall’altra parte, fingono di farsi la guerra ma sono pronti all’inciucio dopo il voto».

La manifestazione parte con un po’ di ritardo, c’è persino chi ipotizza un forfait dell’ultimo minuto del Cavaliere. Ma Berlusconi è al suo posto, si fa precedere da un video «emozionale», poi ripercorre la sua carriera politica. «In dieci anni al governo siamo gli unici a non aver messo le mani nelle tasche degli italiani», si vanta raccogliendo l’applauso più sincero, per poi dedicarsi alla politica estera e inevitabilmente tornare sullo storico accordo di Pratica di Mare quando riuscì a far stringere la mano a Vladimir Putin e George W. Bush. Un momento che, visti i tempi attuali, assume probabilmente un significato ancora maggiore. Poi è il turno di Maurizio Lupi, il più «moderato» eppure assai ruvido nei confronti del cancelliere tedesco Scholz e di quell’accenno ai «postfascisti» cavalcato dall’Spd: «La Germania si aiuti sul prezzo del gas e si preoccupi di meno della nostra democrazia che funziona benissimo».

Ma il piatto forte della serata sono inevitabilmente Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il leader leghista, dopo una frecciata al sindaco di Roma Gualtieri («da romano d’adozione pensavo di aver toccato il fondo con la Raggi, e invece...»), fa un lungo elenco dei provvedimenti nel programma del Carroccio, dal decreto energia da fare al primo Cdm al superamento definitivo della legge Fornero, dalla flat tax al Fisco più leggero per chi mette al mondo più figli. I consensi maggiori, però, li registra in due momenti. Quando rilancia l’abolizione del canone Rai («gli italiani non devono più pagare per i comizi della sinistra, Fazio i suoi comizi se li faccia con i soldi suoi») e quando ricorda l’operato da ministro dell’Interno, la difesa dei confini: «Rischio quindici anni di galera per aver difeso il mio Paese. Forse avrei potuto essere più prudente, ma sarei stato meno efficace. Tutto quello che ho fatto sono pronto a farlo di nuovo». E sembra tanto un modo per prenotare il ritorno al Viminale.

Infine la padrona di casa, Giorgia Meloni. È innegabilmente la «sua» piazza, lo si capisce dalle bandiere di Fratelli d’Italia che sono in rapporto dieci a uno rispetto a quelle degli alleati, dai ragazzi di Gioventù Nazionale schierati per lei tutti in maglia bianca, dagli striscioni con la sua foto: «Noi siamo Giorgia». E lei non delude. Pronuncia un discorso che gioca tutto sulla campagna della paura fatta dalla sinistra. «Io vi faccio paura?» chiede alla piazza, che risponde di no. Ma, in realtà, «qualcuno a cui facciamo paura c’è» dice la leader. «Facciamo paura a chi ricopre posizioni immeritate solo grazie alla tessera del Pd, perché noi punteremo sulla meritocrazia. Facciamo paura ai trasformisti, perché con noi non ci saranno più inciuci e col presidenzialismo daremo governabilità e stabilità. E saremo contenti se la sinistra vorrà aiutarci, ma se avremo i numeri le riforme le faremo anche da soli». E poi ancora: «Ci temono gli speculatori del prezzo dell’energia, ci teme il popolo del no, perché con noi l’Italia tornerà a estrarre gas e a sbloccare la burocrazia delle rinnovabili, ci teme chi fa concorrenza sleale ai nostri marchi, perché noi tuteleremo il Made in Italy. Chi vuole produrre un marchio italiano, dovrà farlo in Italia e con lavoratori italiani».

E poi c’è spazio per la sfida a Conte, mai nominato ma evocato quando si tocca il tema del reddito di cittadinanza, un «ricatto per essere votato», quando invece «noi vogliamo che il riscatto dei poveri passi per il lavoro». E quindi «mai più un’Italia di sudditi costretti a chiedere soldi allo Stato, mai più imprese suddite a causa delle troppe tasse, mai più una pandemia con limitazioni imposte da apprendisti stregoni, mai più un Paese che in Europa non fa valere i propri interessi». A partire, naturalmente, dalla questione immigrazione. Mai più soprattutto, un «popolo che vota turandosi il naso, come vorrebbe la sinistra. È il momento di respirare a pieni polmoni. Respiratela, quest’aria di libertà».
 

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