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Dl Aiuti bis, Mario Draghi si rimangia i superstipendi

Carlantonio Solimene
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Il tetto agli stipendi dei vertici delle forze armate e dei superburocrati dei ministeri resterà. Dopo il clamore suscitato dall’emendamento che permetteva a queste categorie di superare i 240mila euro l’anno imposti all’epoca del governo Renzi, una modifica inserita infelicemente nel Dl Aiuti Bis, è intervenuto in persona Mario Draghi, annunciando un emendamento soppressivo da parte del governo per tornare alle regole precedenti. La commissione Bilancio della Camera ha rapidamente approvato la «contro-modifica» che oggi sarà licenziata anche in Aula. Incidente chiuso, quindi. Con la piccola controindicazione della necessità di procedere a una terza lettura del Dl Aiuti bis, che dovrebbe tenersi a Palazzo Madama all’inizio della prossima settimana.

Fin qui i fatti. Ma la ferita apertasi martedì al Senato lascia strascichi pesanti. Innanzitutto riguardo l’origine dell’emendamento della discordia. Che i protagonisti diretti individuano nel Mef, mentre dal governo si parla di «iniziativa parlamentare». Anche a voler credere alla versione di Palazzo Chigi, però, è assai poco credibile che nessuno si sia accorto di una modifica del genere all’interno di un provvedimento seguito con una certa attenzione dagli uffici della Presidenza del Consiglio. Più facile che qualcuno non abbia voluto vedere. Anche perché, a microfoni spenti, c’è chi rivendica la logicità di un tale intervento. Perché, si dice, è assurdo che a causa del tetto ci siano sottoposti che sono arrivati a guadagnare quanto o più del capo della Polizia o di un segretario generale di tal ministro. E lo stesso grillino Daniele Pesco, presidente della Commissione Finanze al Senato dove si è svolta parte del «fattaccio», ammette: «Per i vertici delle forze dell’ordine far saltare il tetto allo stipendio avrebbe anche un senso. In fondo rischiano la vita...».

Inopportuno, in ogni caso, farlo nel Dl Aiuti. E, soprattutto, in un periodo in cui una larga fetta di italiani fatica ad arrivare a fine mese. Al punto che sarebbe stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in persona a farsi sentire con Draghi per chiedere una retromarcia. E così è stato. D’altronde, le polemiche non si erano arrestate neanche ieri. A tuonare era stato il segretario generale della Cgil Maurizio Landini. «L’aiuto del decreto, insomma, era destinato a chi prende più di 240.000 euro, una cosa indegna contro la dignità delle persone che lavorano tutti i giorni», era sbottato il sindacalista, aggiungendo che «c’è una unica cosa da fare: cancellare quel provvedimento». Non è mancato poi l’ormai abituale botta e risposta polemico tra gli ex alleati Enrico Letta e Giuseppe Conte: su Twitter il segretario del Pd ha espresso soddisfazione per l’emendamento soppressivo del governo. A stretto giro ha replicato Conte: «Eppure l’avete votato, Enrico. Un bel tacer non fu mai scritto», ha cinguettato l’ex premier riferendosi al sì del Pd al Senato alla deroga. «Giuseppe, ci avete messo più di due anni a cambiare i decreti Salvini su nostra pressione. Noi poche ore per chiedere una correzione ad una norma sottovalutata e non voluta da noi», è stata la controreplica dem con il titolare del Lavoro Andrea Orlando.

Unici scontenti, per ora, coloro che ricoprono i ruoli apicali destinatari del provvedimento e che per qualche ora avevano cullato la speranza di corposi aumenti. Anche se hanno qualche motivo per consolarsi: i famosi 240mila euro, infatti, ormai sono solo sulla carta. Già l’ultima manovra di bilancio, a dicembre scorso, ha previsto un adeguamento annuale parametrato sulla crescita delle retribuzioni di docenti universitari, vertici delle forze armate e delle prefetture e del corpo diplomatico. Tradotto in cifre, fanno grosso modo 10mila euro in più l’anno. Meglio di niente. E, per il resto, ci si può sempre riprovare nella prossima legislatura...

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