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Referendum e amministrative, sì della Camera all'election day. Ora niente trucchi sulla data

Francesco Storace
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L’ultimo ministro che si può permettere di fuggire, in democrazia, è quello dell’Interno. Soprattutto quando si esprime il Parlamento. E dopo il voto di ieri alla Camera sull’election day tra referendum sulla giustizia e primo turno delle elezioni amministrative, non ci può essere alcun alibi per madame Luciana Lamorgese. Al Viminale ora non si può scappare, anche per evitare il sospetto di fare sempre e comunque gli interessi del Pd.

 

Anche perché un partito che le elezioni politiche non le vince mai, non può decidere per interposta persona addirittura la data in cui gli italiani saranno chiamati a dire sì o no a fare pulizia nella giustizia del nostro Paese. L’aula di Montecitorio ha approvato in maniera clamorosa un ordine del giorno della Lega, presentato al decreto milleproroghe, proprio per impegnare il governo a favorire lo svolgimento del referendum senza buttare 200 milioni: che si risparmiano proprio accorpando la consultazione alle elezioni amministrative di quest’anno. Il documento ha avuto a favore la bellezza di 371 voti e solo sette onorevoli hanno respinto l’idea. Praticamente un plebiscito. E c’è da aggiungere che il rappresentante del governo a Montecitorio si era rimesso all’aula per la decisione da prendere. Il dispositivo impegna il governo a «prevedere che le elezioni amministrative 2022 e i referendum sulla Giustizia si svolgano in un’unica giornata» e questo dovrebbe di per sé togliere ogni spazio alle ambiguità sulla data.

 

«Il ministro Lamorgese rispetti questa decisione», ha detto il capogruppo leghista della commissione affari costituzionali Igor Iezzi. E da qui non se ne può certo uscire con alibi, pretesti, sotterfugi. Perché se il Parlamento dispone con quel tipo di maggioranza – opposizione inclusa – il ministero degli Interni deve solo preparare le carte da far firmare per decreto alla Lamorgese. I cinque quesiti che hanno superato l’esame della Corte costituzionale riguardano temi importanti a partire dalla separazione delle carriere in magistratura; la fine degli abusi nella custodia cautelare; le modalità di valutazione delle toghe; gli eccessi della legge Severino; la fine delle correnti nel Csm. Questi referendum non possono essere svillaneggiati dalle volontà dei partiti che agiscono sempre sotto dettatura esterna al Parlamento quando si parla di giustizia e di magistratura. Salvini, che pure ha promosso la consultazione assieme al partito radicale, non vuol sentir parlare di referendum di partito: «Sono di tutti, sono del popolo italiano a cui offriamo lo strumento per decidere». Ad esempio, gli stessi sindaci da anni chiedono di superare l’attuale normativa che li mette in croce anche in presenza di una condanna in primo grado, anche per reati minori e soprattutto per un reato dal profilo incerto come l’abuso d’ufficio.

La proposta referendaria restituisce al giudice il compito di decidere sulla situazione dell’amministratore condannato e non più attraverso quei meccanismi automatici che si trasformano in una ulteriore pena accessoria. Ha detto il presidente dell’Anci, Antonio Decaro: «La stragrande maggioranza di queste sospensioni decade alla loro scadenza e l’unica conseguenza che ne deriva è un grave danno per la vita della comunità che rimane senza guida, e per la figura del sindaco, la cui vita politica e personale viene inevitabilmente segnata. Che sia per scelta degli elettori o per una iniziativa del Parlamento, che abbiamo più volte sollecitato, per noi è importante modificare la legge Severino per dare stabilità e continuità alla vita amministrativa delle nostre comunità». Ma il Parlamento ha puntualmente fallito ogni tentativo di riforma.

Per questo toccherà al popolo decidere tra i sì e i no ai vari quesiti. Il ministro dell’interno, dopo il voto di ieri, deve solo garantire le più trasparenti procedure per agevolare la consultazione senza farsi prendere dalla smania di fare dispetti al suo predecessore. Se non ci pensa lei, sia Draghi a farci risparmiare 200 milioni di spesa garantendo l’esercizio di un rito autenticamente democratico. Senza trucchi col voto di ballottaggio, dove votano meno elettori e si vanificherebbe la volontà di risparmiare quei 200 milioni.

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