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Il Parlamento si riscatta solo se vara il presidenzialismo: serve la riforma costituzionale

Andrea Amata
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La battaglia per il Colle ha provocato macerie nei rispettivi schieramenti con il rischio di una prematura e definitiva archiviazione del bipolarismo. Le elezioni del 2018 ci avevano consegnato uno schema tripolare per l'exploit dei 5 Stelle. Il conseguente stallo politico si sbloccò con l'inedita alleanza gialloverde, la cui eterogeneità fece emergere e deflagrare dissidi incompatibili con l'azione di governo. Anche la successiva intesa giallorossa palesò il limite di una convivenza tra culture politiche distanti, che, tuttavia, sembravano sperimentare l'incunabolo di un'alleanza strutturale con la conseguente ricomposizione del confronto bipolare. L'interregno di Mario Draghi doveva rappresentare un periodo di transizione per il tempo necessario a placare le distorsioni sanitarie ed economiche causate all'emergenza pandemica. La safety car guidata dall'ex banchiere centrale doveva immettersi nel circuito politico per conferire sicurezza al sistema istituzionale e, una volta ripristinata la praticabilità della pista, consentire alle scuderie partitiche di subentrare in gara per conquistare il primato nella competizione elettorale. I due fronti sembravano rigenerarsi nella configurazione bipolare con il centrodestra alternativo all'alleanza rossogialla, ma l'esito della battaglia per il Colle ha lasciato una scia di veleni e diffidenze in entrambi gli schieramenti.

 

 

I commentatori ostili al centrodestra hanno interesse ad approfondire il solco fra Lega, FdI e Forza Italia, imputando a Matteo Salvini la responsabilità di aver bruciato, come fosse un novello Nerone, le figure di area che potevano aspirare a succedere a Sergio Mattarella. Il leader leghista ci ha provato a giocare la partita del Quirinale pur senza il conforto dei numeri, che per loro natura non hanno il dono taumaturgico di lievitare tramutando le maggioranze relative in assolute. Alla fine la riconferma di Mattarella all'ottava votazione è stata una scelta ineludibile e la più indolore per disinnescare l'impasse istituzionale. A Salvini va dato atto di generosità e di averle provate tutte. Aveva di fronte due zavorre: da un lato, un centrosinistra piantato nella sua sindrome da superiorità morale, tale per cui solo i loro vanno bene per ricoprire certe cariche. Dall'altro, però, anche una coalizione che arrivava all'appuntamento fiaccata da conflittualità interne mai risolte e le ha espettorate negli incidenti che abbiamo visto (il voto sulla Casellati e prima ancora la candidatura di Crosetto in solitaria da parte di FdI). La scelta di stare al governo, per quanto dolorosa, è l'unica che può portare la Lega ad intestarsi una quota - non secondaria - di merito nella difficile opera di ricostruzione del Paese che abbiamo davanti. Un percorso complesso e anche dispendioso sul piano politico.

 

Fra un anno, finalmente, l'appuntamento elettorale non potrà essere eluso e in base alla legge elettorale che verrà varata sapremo se prevarranno le alleanze ex ante il voto o quelle ex post che si formano nelle combinazioni parlamentari. Prima di allora il Parlamento può riscattarsi, incardinando il procedimento di revisione della Costituzione per introdurre l'elezione diretta del Presidente della Repubblica. Solo così l'assemblea legislativa può recuperare quella centralità che si declama con la consueta dose di retorica democratica ed essere effettivo propulsore di irradiazione della fiducia popolare, svecchiando una pratica che rischia di acuire un vuoto preoccupante fra l'impotenza decisionale delle istituzioni e la volontà popolare.

 

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