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Se il centrodestra ha una dignità non può far vincere il Pd pure sul Quirinale

Riccardo Mazzoni
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«Dobbiamo dialogare col centrodestra per un nome non di centrodestra»: parole e musica di Enrico Letta, con la voce da padrone del partito che nella seconda Repubblica è stato sempre il dominus delle partite quirinalizie, e pretende di continuare a esserlo nonostante il 12% di grandi elettori di cui dispone. Per cui la scure dell'inadeguatezza, calata per principio sulla testa di Berlusconi, ora si è estesa a ogni altro piano B che il centrodestra avesse in mente. Una pretesa dirompente, ma non certo sorprendente, se si riavvolge il nastro e si torna ai due precedenti di nove e sette anni fa. Partiamo dall'aprile 2013, quando il Parlamento in seduta comune fu convocato per eleggere il successore di Napolitano, che dopo una serie di incredibili pasticci fu confermato a larghissima maggioranza, ripagando chi lo aveva rieletto con una durissima reprimenda. Bersani, allora plenipotenziario del Pd, aveva concordato con Berlusconi, allora leader incontrastato del centrodestra, il nome di Franco Marini, ex presidente del Senato e profilo in qualche modo unificante ma sgradito sia all'estrema sinistra di Vendola che ai rottamatori di Renzi. Avrebbe dovuto passare subito, sulle orme di Ciampi, in modo plebiscitario, ma il tentativo naufragò nel mare magno dei franchi tiratori. Eppure il Pdl rispettò i patti, ritenendo che si dovesse far presto nell'interesse del Paese, appena uscito dalle elezioni di febbraio e col governo Monti in prorogatio, ma il Pd si spaccò fragorosamente, affossando insieme a Marini la stessa leadership di Bersani. Il M5s, pur potendo già contare su una robusta rappresentanza parlamentare, era fuori da tutti i giochi, e si limitò a mettere in atto un'azione di disturbo - votando Rodotà - con l'obiettivo dichiarato di sfasciare tutto, anticipando la moda dei pop-corn.

 

 

Alle politiche c'era stato un sostanziale pareggio, ma per lo smisurato premio di maggioranza previsto dal Porcellum, il Pd disponeva della maggioranza dei parlamentari, quindi gli fu riconosciuta la facoltà di dare le carte, e il Pdl favorì senza remore un percorso che stabilizzasse le istituzioni e garantisse un sollecito ritorno alla piena governabilità del Paese. Il Pd invece dimostrò di non essere all'altezza del compito, pagando tutte insieme le contraddizioni insite nel suo dna fin dal suo atto di nascita. Lo spettacolo andato in scena al teatro Capranica fu desolante, trasformandosi in una polveriera pronta a saltare in aria da un momento all'altro, con il Quirinale scelto come terreno di scontro per aprire il congresso del partito. Silurato Marini per la congiura incrociata (e anomala) di giovani turchi, cattocomunisti e renziani, per qualche ora l'impressione fra i grandi elettori fu che il Pd potesse virare su D'Alema, fino a quando la portavoce di Prodi, Sandra Zampa, avvertì: «Quello in atto è un suicidio neanche assistito». Bersani decise quindi di giocarsi il tutto per tutto puntando sull'ex premier bolognese, la figura più invisa al centrodestra: fu uno strappo istituzionale prima ancora che politico, teso a mettere in un angolo il Pdl e a occupare la poltronissima del Colle con una prova di forza che si rivelò invece il sintomo della estrema debolezza politica di un partito fuori controllo. Avrebbe avuto molti modi, il Pd, per uscire dal pantano in cui si era cacciato con la figuraccia inflitta a Marini, e scelse il peggiore, designando con una unanimità evidentemente solo di facciata l'unico nome che il Pdl aveva detto di non volere. Sempre al Capranica, Bersani illustrò la nuova strategia: votare scheda bianca al terzo scrutinio e puntare su Prodi al quarto. Il centrodestra scelse l'Aventino, e non nascondo che ebbi un sussulto di gioia, appena a metà del quarto scrutinio, mentre seduto su un banco della Camera tenevo un personale, empirico ma efficace pallottoliere, avere già la certezza che il Professore non ce l'avrebbe mai fatta, e che l'autodafè del Pd si sarebbe dunque arricchito di un nuovo, esilarante capitolo.

 

 

Un partito allo sbando, senza più vertici, costretto ad affidarsi a un direttorio per preparare il congresso e cancellare una gestione dilettantesca che aveva mandato allo sbaraglio due fondatori del partito. Bersani insomma le aveva sbagliate proprio tutte, passando dal vano corteggiamento di Grillo all'intesa col centrodestra, per poi fare un'altra inversione a «U» con l'improvvisa convocazione di Prodi l'Africano e tornare, come in un grottesco gioco dell'oca, al punto di partenza, ovvero alle «larghe o medie intese»- come le definì causticamente Marini- in nome delle quali sarebbe di lì a poco nato il governo di larghe intese imposto da Napolitano e guidato da Letta. Questo per dire che il Pd non ha alcun titolo per impartire lezioni al centrodestra, dopo aver celebrato un precongresso di partito durante il voto solenne per il Quirinale. E due anni dopo Renzi non esitò a buttare nel cestino il Patto del Nazareno per imporre il suo candidato. No, questa volta il centrodestra non può permettere a Letta di vincere anche questa partita. Per una questione di principio. E di dignità politica.

 

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