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Semipresidenzialismo "de facto", la partita del Quirinale col lodo Giorgetti

Riccardo Mazzoni
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Giorgetti, con la proposta del semipresidenzialismo «de facto» con l’elezione di Draghi che poi, dal Quirinale, dovrebbe eterodirigere anche il governo, ha lanciato nello stagno non un sasso, ma un autentico macigno, perché significherebbe affermare una Costituzione materiale totalmente difforme da quella formale. Un’eresia, dunque? Certamente sì, anche se negli ultimi trent’anni il combinato disposto di mutazioni politiche e nuove leggi elettorali ha già imposto modifiche profonde alle tradizionali dinamiche politico-istituzionali. Il bipolarismo centrodestra-centrosinistra nato con la discesa in campo di Berlusconi, ad esempio, portò a una semplificazione della nomina del capo del governo, riducendo a semplice orpello le consultazioni del Capo dello Stato, perché la sera del voto si sapeva già che l’incarico di formare l’esecutivo sarebbe stato affidato al leader della coalizione vincente, con l’introduzione dunque di una implicita elezione diretta del premier.

 

Non solo: da Scalfaro in poi, il ruolo del presidente della Repubblica si è trasformato da quello di semplice notaio della volontà dei partiti a dominus effettivo della politica, una piccola rivoluzione che raggiunse il diapason durante il Settennato di Napolitano, basti ricordare le manovre oblique che portarono alla sostituzione di Berlusconi con Monti nel 2011 e la rielezione come unico punto possibile di equilibrio del sistema politico. Lo stesso Mattarella, che pure si è sempre mosso nei canoni dell’ortodossia istituzionale, con la scelta di conferire l’incarico a Draghi all’insaputa dei partiti ha messo tutti davanti al fatto compiuto instaurando con Draghi la diarchia ben descritta da Paolo Armaroli nei suoi ultimi lavori. Per cui, visti i precedenti, il lodo Giorgetti sarebbe solo l’ultima forzatura rispetto a un dettato costituzionale tanto obsoleto quanto difficile da aggiornare, come testimoniano i numerosi tentativi di riforma puntualmente abortiti. Inutile girarci intorno: l’esigenza di rafforzare i poteri del premier è stata il canovaccio della seconda Repubblica, sia con Berlusconi («Non ho mai avuto la sensazione di essere al potere, di avere potere» – disse una volta -. Forse ne ho avuto come imprenditore, quando avevo 56mila collaboratori, ma non adesso»), sia con Prodi, rimasto costantemente ostaggio di maggioranze spurie nelle due esperienze da premier. La governabilità è sempre stata dunque una moneta svalutata.

 

Del resto, l’Italia repubblicana si fondò su una Costituzione che, per scongiurare il pericolo di un ritorno alla dittatura, fu scritta con l’obiettivo di limitare la forza del potere esecutivo, anche se nel dibattito in Assemblea costituente, con l’approvazione dell’ordine del giorno Perassi, si raccomandò di bilanciare il sistema parlamentare «con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo». Dispositivi poi mai adottati, ma che sarebbero stati surrettiziamente introdotti soprattutto dal secondo governo Conte nella gestione della pandemia, commissariando di fatto il Parlamento a colpi di Dpcm. Una tendenza consolidata dall’ingresso a Palazzo Chigi di una personalità autorevole come Draghi, anche se più accettabile dal punto di vista formale grazie alla larghissima maggioranza parlamentare di cui dispone il suo governo. 

Questo è lo stato dell’arte, e la provocazione di Giorgetti è stata quindi utile per rimettere sul tavolo della politica il problema dei rapporti fra governo e Parlamento nella prospettiva di come dovrà essere codificato l’assetto istituzionale una volta che l’Italia sarà uscita dall’emergenza. In questa legislatura si sono alternati tre governi diversi, ed è un’anomalia che non si riscontra in nessun’altra democrazia occidentale. Servirebbe dunque quella Grande Riforma su cui la politica dibatte inutilmente fino dai tempi arcani della Commissione Bozzi, anche perché proprio il Covid ha messo a nudo un’altra questione dirimente: il bilanciamento dei poteri tra Stato centrali e regioni, che a causa della pessima riforma in senso federalista del 2001 ha provocato all’inizio della pandemia evidenti discrasie, e conseguenti disastri, sulle competenze sanitarie.

 

Una Grande Riforma che, però, non può essere ritagliata sulla figura di un uomo, anche se si tratta di uno statista come Draghi, ma che dovrebbe guardare al dopo: al futuro del Paese. Si dice che accanto a un premier forte ci vuole sempre un Parlamento forte, ma il nuovo Parlamento, dimezzato attraverso un taglio dissennato, rischia di nascere come un’anatra zoppa, e il dopo Draghi è ancora avvolto nella nebbia più fitta, per cui il timore è che si riproponga un dualismo intollerabile per un Paese in corso di ricostruzione: un premier e un Parlamento entrambi deboli. Le strade per uscirne sono note e ampiamente dibattute: semipresidenzialismo, premierato forte o Cancellierato alla tedesca sono tutte opzioni valide, ma la Costituente caldeggiata da Pera è rimasta lettera morta, e il macigno lanciato nello stagno da Giorgetti appare come la presa d’atto dell’incapacità della politica di riformare sé stessa e le istituzioni. Più che uno stagno, una palude.
 

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