giustizia elettorale

Si può battere la macchina del fango della sinistra: inchieste a senso unico sotto elezioni

Riccardo Mazzoni

L’immagine di Sonny Colbrelli che coperto di fango ha trionfato ieri nella leggendaria Parigi-Roubaix, potrebbe diventare la metafora della campagna elettorale appena conclusa, l’ennesima in cui di fango nel ventilatore si è fatto uso industriale. Con una differenza basilare: l’Inferno del nord non è truccato, e il pavée non guarda in faccia né Colbrelli né Van der Poel, né il vincitore né il favorito sconfitto, mentre la macchina del fango in azione permanente effettiva negli ambulacri della nostra politica utilizza l’usato sicuro della commistione tra giustizia e politica, in un crescendo di rivelazioni gettate sul tavolo da qualche sapiente manina adusa a manovrare la politica come fanno certi croupier con le roulettes truccate. Nessuna meraviglia dunque se sulla settimana decisiva sono piovute in successione notizie di inchieste risalenti ad agosto e polpette giornalistiche vecchie di tre anni, oltre a sentenze cadute come fulmini da un cielo già ricolmo di nubi nerissime. L’unico vaccino a queste inveterate derive che riempiono sistematicamente di veleni le urne sarebbe l’ancoraggio alla prudenza garantista, soprattutto ora che il vaso di Pandora delle malefatte giudiziarie è stato scoperchiato dalle rivelazioni di Palamara, ma non c’è nulla da fare: la pulsione a strumentalizzare moralisticamente le disgrazie altrui resta irrefrenabile, e continua quindi ad andare in scena il cupo teatrino della giustizia utilizzata come un’arma impropria. Ma in queste convulse ore di attesa dei verdetti elettorali si assiste a un doppio, clamoroso capovolgimento della realtà che non può essere sottaciuto: mentre sulle schede elettorali proliferano simboli con falce e martello che si rifanno esplicitamente al comunismo, grande stampa, televisioni e le piattaforme social hanno ossessivamente rilanciato l’allarme rosso sul ritorno del pericolo fascista.

 

  

 

Non solo, e siamo al secondo paradosso: nel processare la destra e i suoi metodi comunicativi, la Bestia salviniana è stata mediaticamente messa al rogo come l’essenza stessa del populismo sovranista e di una politica fondata sulla cultura del nemico. Qui siamo al totale stravolgimento della realtà, nel senso che la delegittimazione dell’avversario è a tutti gli effetti un retaggio storico della sinistra, del suo ingiustificato complesso di superiorità morale e della torsione ideologica per cui c’è vera democrazia solo quando il centrodestra è all’opposizione. È stato questo il male oscuro della Seconda Repubblica, il macigno che ha bloccato ogni tentativo di riforma bipartisan, e che ha imprigionato il confronto politico in uno schema tristemente ripetitivo, con le bocche di fuoco della propaganda «progressista» che in servizio permanente hanno sparato bordate micidiali dalle casematte culturali e da quelle giudiziarie. La vittima sacrificale di questa oliata macchina da guerra è stato Berlusconi, il Cavaliere nero, braccato per venti anni e infine cacciato dal Parlamento come un dittatore deposto, poi è toccato a Salvini, il Capitano nero del Papeete, e ora è giunto inevitabilmente il turno di Giorgia Meloni, prima blandita in funzione anti Lega ma cresciuta troppo e quindi respinta come un’intrusa dai salotti buoni della democrazia.

 

 

 

Eppure se c’è una parte politica che ha nel suo dna la fabbricazione dell’odio, è proprio quella che schiera il Pd e i suoi veri o presunti alleati Cinque Stelle, nati nel brodo di coltura del Vaffa post-ideologico, che hanno seminato a piene mani qualunquismo e rancori come lanzichenecchi delle istituzioni, distruggendo il merito e causando al tessuto sociale danni incommensurabilmente più gravi rispetto ai sepolcri imbiancati dell’estrema destra. È desolante dirlo, ma questa è ancora l’Italia, un Paese in cui la sinistra non ha mai fatto davvero i conti con la propria storia, e resta una minoranza organizzata sempre in cattedra a distribuire patenti di democrazia, tirando fuori dagli armadi tutto il vecchio armamentario ereditato dal Pci. È il lascito storico, politico, culturale e strabico del difetto d’origine di una Costituzione fondata sul paradigma antifascista e non sull’antitotalitarismo, perché frutto di un compromesso di necessità col partito comunista più grande d’Occidente. Più di settant’anni dopo, ne paghiamo ancora le conseguenze.