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L'ossessione della sinistra per Bella ciao. Sanno cantare sempre solo lo stesso ritornello

Riccardo Mazzoni
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L'ultima trovata dei reduci della maggioranza rossogialla è una chiara manipolazione della storia e l’imbarazzante tentativo di imporre un’egemonia culturale fuori tempo e fuori luogo. Un gruppo di deputati del Pd, dei Cinque Stelle e di Italia Viva, tra cui spiccano le firme di Boldrini e Fassino, ha infatti presentato una proposta di legge in cui si chiede che «la canzone "Bella ciao" sia eseguita, dopo l'inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo». Ora, solo porre Bella ciao sullo stesso piano dell’inno di Mameli, attribuendole così la rappresentanza «dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica» è un’acrobazia ideologica degna del peggior integralismo di sinistra, che finisce anche per svilire l’importanza dello stesso inno nazionale.

 

Un controsenso peraltro implicitamente riconosciuto anche dagli stessi promotori, i quali nella relazione di accompagnamento ammettono che il testo della canzone «trova maturazione e diffusione in periodi diversi che si collocano tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta, con il riconoscimento popolare ottenuto nel 1964 in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto». Ergo: Bella ciao non ha nulla a che vedere con la nascita della Repubblica, avendo origini controverse, che potrebbero addirittura risalire alla fine dell’Ottocento, ai canti della tradizione popolare slava.

 

E qui arriva la seconda manipolazione: «Bella ciao» rappresenterebbe infatti, secondo i promotori, la colonna sonora del momento in cui la politica aveva necessità «di unificare le varie anime della Resistenza, quella comunista, socialista, cattolica, azionista, liberale e monarchico-badogliana». Ribaltando la verità storica, insomma, la canzone fatta propria dal Pci, divenuta identitaria ed eseguita rigorosamente in tutte le Feste dell’Unità, sarebbe invece da omaggiare come un baluardo simbolico del concetto di unità nazionale «nato con la Resistenza e per la difesa dei valori di libertà e democrazia», non essendo espressione «di una singola parte politica», ma identificando «la lotta per la libertà personale e quella del proprio Paese rispetto a ogni forma di oppressione dittatoriale».

In realtà, nel secondo dopoguerra e negli anni successivi si impose il predominio del paradigma, di stampo marxista e azionista, secondo cui l’elemento storico e culturale costitutivo della democrazia italiana era l’antifascismo, ma non l’anticomunismo, come se nel secolo breve l’oppressione dittatoriale fosse stata solo quella nazifascista, e si affermò la narrazione secondo cui la Resistenza era stata solo quella delle formazioni partigiane comuniste, un retaggio ideologico duro a morire, nonostante le crude e diverse verità ricostruite dai coraggiosi libri di Pansa, uno dei quali intitolato appunto, significativamente, «Bella ciao».

 

Il 25 aprile a vincere fu il popolo italiano, e il giorno della Liberazione dovrebbe dunque essere – e purtroppo non lo è mai stato - una grande festa di coesione e riconciliazione nazionale. Imporre «Bella ciao» nelle celebrazioni significherebbe invece acuire le vecchie ferite mai rimarginate, e sarebbe un errore grave, come quello pavloviano della sinistra di strumentalizzare sempre la memoria a fini di parte. La maggioranza degli italiani scelse la Repubblica e l’antifascismo, e con il voto storico di un altro aprile cruciale, quello del ’48, si schierò con le democrazie occidentali contro il comunismo. Questa è la storia, e «Bella ciao» non potrà mai diventare il suo spartito. 

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