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Vaccino, a chi dare la fiala prima. Che pena l'Italia delle corporazioni

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Franco Bechis
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Ci hanno provato - e in qualche caso ci sono riusciti - i magistrati e gli avvocati. Lo hanno chiesto a gran voce rimediando qualche fischio i giornalisti attraverso i vertici del loro ordine. A rischio di restarne fulminati hanno pensato bene di rivendicarlo pure i politici, e sul territorio sono passati pure dalle parole ai fatti. “A me il vaccino please” ora è diventato il grido di battaglia delle organizzazioni sindacali dei dipendenti di Banca d'Italia. E a ruota di ogni professione e organizzazione. Non mi scandalizza che smaniassero dalla voglia di farlo: la gran parte degli italiani non sogna che essere protetta da quel coronavirus che ha ripreso a macinare centinaia di vittime al giorno nella penisola. Ma intristisce il motivo di questa umanissima voglia di avere l'antidoto prima, fosse anche tagliando un po' la fila: “la nostra professione è essenziale, delicata, in prima linea, più rischiosa delle altre”.

Lo hanno rivendicato un po' tutti con le stesse parole nelle ultime settimane, senza nemmeno avvertire l'aspetto grottesco di quelle parole. Perché utili tutti siamo, necessari mai. Ai magistrati e avvocati che si sono messi in prima fila ricordo che gli scienziati che assistono il governo hanno chiuso i ristoranti e i bar ben più dei tribunali, e che quindi il rischio della vita l'abbiano avuto più camerieri e baristi di loro: sarebbe ingiustizia e prepotenza passare davanti. E si potrebbe continuare con mille altri paragoni per dimostrare che ingiustizia è stata fare passare davanti ad altre professioni gli operatori della giustizia, e che ingiustizia sarebbe oggi concedere la stessa cosa ad altri, e lo dico prima di tutti alla mia categoria, quella dei giornalisti.

Queste strilla e rivendicazioni sul diritto prioritario alla vaccinazione, benché affievolitesi in queste ultime ore dalla prospettiva di vedersi inoculare la dose di AstraZeneca, sono specchio e vergogna di un paese a cui questo anno tremendo non ha insegnato proprio nulla. Ne discutevo con un anziano professore ormai non più in servizio che senza fronzoli osservava: “Macché paese migliorato e svegliato da questa tempesta! Nessuno ha fatto niente per gli altri nell'ultimo anno. I soli ad avere pagato tutto il prezzo anche di errori altrui sono stati medici e infermieri. Gli altri italiani non sono esistiti”. Osservazione urticante, certo. Ma vera, terribilmente vera per la gran parte di questo paese che invece rivendica meriti che non ha avuto e riconoscenze del tutto ingiustificate. “In prima linea” nell'anno del coronavirus ci sono stati solo medici e infermieri, che certo hanno fatto il loro lavoro, ma in condizioni estreme, con rischi altissimi, imparagonabili a quelli di qualsiasi altro italiano. Altro che giornalisti, magistrati, avvocati, sindaci, senatori e deputati, consiglieri regionali, dipendenti di Bankitalia o chiunque altro oggi rivendichi per sé un diritto privilegiato che non ha. Vorrei vedere uno solo di questi signori passare una giornata intera con la tuta e le super protezioni anti-Covid, nulla da bere e da mangiare, un pannolone addosso perché non è possibile arrivare a un a toilette come hanno fatto i nostri medici e infermieri.

Ma ci si riesce ancora a guardare nello specchio al mattino dopo avere gridato questo prepotente e falso diritto a saltare la fila ed essere protetto prima degli altri? E' un cancro profondo che non ha medicina né vaccino a disposizione questa eterna Italia della corporazioni, e questo è davvero l'occasione irripetibile per estirparlo. Bisogna portare i piani vaccinali via dalle mani di chi come il governatore toscano Eugenio Giani ha pensato di vaccinare i magistrati quando ancora non era riuscito a darli a più deboli e fragili. Siano solo in mano al governo centrale che ha dato direttiva - ma non l'ha imposto - di procedere con l'unico criterio di scelta possibile: si salvi chi muore di più, perché sono loro ad avere bisogno del vaccino e non hanno divisa né ordine, ma solo data di nascita. Il solo ordine possibile è quello che ben indicano i dati dell'Istituto superiore di Sanità. Al 10 marzo scorso il 41,6% di vittime per Covid aveva un'età compresa fra 80 e 89 anni. Seconda fascia: 70-79 (24,2% dei deceduti). Terza fascia gli ultranovantenni (20,4% dei deceduti, ma essendo anche numericamente meno degli altri, quella in cui la letalità della malattia si è rivelata più alta). Il 9,4% delle morti si è verificata fra i 60 e i 69 anni, poi il 3,2% fra 50 e 59 anni. Solo lo 0,8% fra 40 e 49, e ancora meno a scendere giù: 0,2%, poi 0,1% e percentuale irrilevante al di sotto dei 20 anni. Salvare chi rischia la vita è la sola missione, e ovviamente dentro ci deve essere chi è più fragile per la salute e non solo per l'età. A tutti gli altri bisogna chiedere silenzio e rispetto. Aspettino il loro turno zitti e basta.

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