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L'ultima capriola del povero M5S: Beppe Grillo incontra Mario Draghi

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Riccardo Mazzoni
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Dal V-day al D-day, ossia dal Vaffa a Draghi: oggi per il Movimento Cinque Stelle è una giornata surreale, con Beppe Grillo in persona che si siederà di fronte al presidente incaricato non per irriderlo, come toccò prima al premier Monti («Vai alle Barbados») e poi a Bersani e a Renzi nei tragicomici confronti in streaming, ma per garantirgli il sofferto sostegno delle dilaniate truppe grilline in Parlamento.

È l'ultima metamorfosi della strana creatura inventata da Gianroberto Casaleggio, che ne fu la mente raffinata affidando il ruolo di pubblico imbonitore al comico che aveva fatto le sue fortune battagliando strenuamente contro le banche vampire. Chi non ricorda, infatti, la ormai leggendaria irruzione era fine aprile del 2014 all'assemblea del Monte dei Paschi, dove Grillo, in una memorabile requisitoria, definì quel consesso «il cuore del voto di scambio e la mafia del capitalismo»? Il nemico giurato allora era il sistema di potere comunista ereditato dal Pd col quale poi, cinque anni dopo, il grillismo di lotta e di governo avrebbe stretto senza batter ciglio un patto strategico di legislatura arenatosi però nelle secche inconcludenti del Conte bis. «Tu rappresenti le banche e i poteri forti», si senti accusare il Rottamatore, ma era un'altra epoca, perché Grillo ora si è arruolato tra i «costruttori» invocati nel messaggio di fine anno da Mattarella, e al premier incaricato Draghi, che per la sua storia avrebbe molti più titoli di Renzi per incarnare la rappresentanza di banche e poteri forti, riserverà un trattamento di velluto. Segno dei tempi: dello spirito originario del Movimento restano infatti solo macerie sparse e il simulacro di slogan sempre più sbiaditi, essendo progressivamente caduti ad uno ad uno i totem della purezza e dello splendido isolamento politico.

Dall'uno vale uno, insomma, a uno vale un altro, per cui in nome del potere si possono stringere disinvoltamente accordi a destra e a sinistra, fino a legittimare il vituperato trasformismo parlamentare, elevato a categoria virtuosa della politica dopo che per anni il sacro blog lo aveva paragonato a un vergognoso «mercato delle vacche» da eliminare subito introducendo il vincolo di mandato in Costituzione. E ci si pub anche sedere al tavolo delle plutoburocrazie comunitarie dopo anni di anti europeismo viscerale culminato nell'abbraccio con i gilet gialli che avevano appena messo a soqquadro Parigi. La parabola di questi uomini senza qualità, insomma, si sta per concludere con la sottomissione definitiva a Mattarella («Non si può dire di no al Quirinale») dopo averne chiesto l'impeachment, e anche a Draghi, l'«apostolo delle élites» messo alla gogna da Di Battista, l'ultimo giapponese della guerra al sistema, che nasconde però dietro le vecchie e usurate parole d'ordine la delusione per aver visto sfumare un incarico ministeriale nel governo Conti ter. Già, perché anche i pasdaran hanno un loro codice non di coerenza, ma di sopravvivenza, e calibrano i loro istinti massimalisti con la convenienza, tipo l'ex ministra Lezzi, che ha preso a martellare il quartier generale solo quando le hanno tolto la cadrega nel passaggio da Salvini a Zingaretti.

Il populismo grillino, complice l'ubriacatura elettorale di un terzo di italiani, ha già prodotto danni equivalenti a una pandemia politica, come aveva previsto negli anni Settanta Nicola Matteucci, un grande pensatore liberale: «La democrazia populistica - scrisse - è fatta di idee semplici e di passioni elementari, di un diffuso atteggiamento di rancore e di invidia contro le "aristocrazie" (lo specialista, l'esperto, lo studioso) in nome di un estremo egualitarismo, e contro il peso del passato, globalmente giudicato come un male». Ora si volta finalmente pagina, ed è una perfetta nemesi che sia proprio il massimo esponente dell'aristocrazia italiana della competenza a mettere in riga l'esercito dei rivoluzionari straccioni. Anche se oggi gli toccherà ascoltare perfino Beppe Grillo.

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