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Inchiesta di Catanzaro ad orologeria. Lo dimostra proprio Gratteri

Franco Bechis
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Interviste a raffica ai giornali. Poi siccome non basta, anche radio e tv. Parla più delle sue inchieste il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Ed è proprio lì il problema. Lo sta facendo ora per difendersi dalle polemiche sull’avviso di garanzia al segretario Udc, Lorenzo Cesa. Un fatto che fino a un mese fa non avrebbe strappato una sola riga su un giornale, ma che ora è diventato esplosivo perché Cesa è ago della bilancia fra maggioranza e opposizione nella crisi di governo. Così ancora ieri Gratteri è intervenuto per difendersi dai sospetti a Radio anche io su Radio Uno Rai: «Indagini a orologeria su Cesa? La sera prima su Rainews l’ho visto con Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani dire no ad accordi col centrosinistra. Allora o siamo su scherzi a parte o si dice A ma si tratta su B». Frase onestamente incomprensibile. Ma anche la mattina nella sua intervista al giornalista del Corriere della Sera che gli chiedeva se non avrebbe potuto aspettare la conclusione della crisi di governo prima di inviare l’avviso a Cesa, Gratteri ha risposto: «Io fino all’altra sera gli ho sentito dire in tv che lui e l’Udc non sarebbero entrati in maggioranza, quindi questo problema non si è posto. Se ora qualcuno vuole sostenere il contrario, lo faccia. Ma io l’ho sentito con le mie orecchie».

Queste due dichiarazioni riavvolte e lette al rovescio lasciano intendere una cosa molto antipatica: che se invece Cesa fosse entrato nella maggioranza per sostenere il governo di Giuseppe Conte o avesse lasciato intendere di essere disposto a salvare l’esecutivo, Gratteri si sarebbe posto un problema di opportunità e forse quell’avviso di garanzia sarebbe restato nel cassetto in attesa di momenti politicamente meno caldi. In fondo è la stessa cosa che ammette il procuratore di Catanzaro in quella stessa intervista a proposito delle misure cautelari per esponenti politici locali, come l’assessore regionale Udc, Francesco Talarico: «Noi abbiamo saputo», spiega Gratteri, «che dovevamo arrestare l’assessore Talarico, assieme agli altri, quando è arrivata l’ordinanza del gip, all’inizio di gennaio, a un anno di distanza dalla nostra richiesta e a sei mesi dall’ultima integrazione. Le elezioni in Calabria erano fissate per il 14 febbraio, avremmo aspettato il 15 per non interferire nella campagna elettorale, ma poi sono state rinviate ad aprile: non potevo lasciare arresti in sospeso per decine di persone altri tre mesi».

Pensavo che l’azione penale fosse obbligatoria, non discrezionale a seconda delle opportunità politiche. Pensavo pure che tutti i cittadini fossero uguali davanti alla legge: un pm avrebbe le stesse preoccupazioni davanti a un altro cittadino che invece di essere impegnato in una campagna elettorale fosse impegnato - che so - nello svolgimento di un delicato concorso pubblico? Rinvierebbe mai un mandato di arresto per non turbare l’esito di quelle prove? La risposta è no, e se Gratteri invece fa intendere che non avrebbe arrestato nessuno in campagna elettorale, rinviando all’indomani del voto, ammette così che i cittadini non sono affatto uguali davanti alla legge. Per altro le preoccupazioni del procuratore in un caso e nell’altro sarebbero state veramente inutili. Perché avrebbe fatto più danni ad arrestare un candidato alle Regionali il giorno dopo la sua elezione magari trionfale che all’inizio della campagna elettorale, precludendola. Come avrebbe causato più danni al governo se avesse inviato l’avviso a Cesa il giorno dopo un suo eventuale ingresso nel governo Conte come ministro, ipotesi che appunto circolava alla vigilia. In un paese normale si invia un avviso di garanzia se ne esistono i presupposti, senza pensare ad altro. E ancora di più si procede a una misura cautelare senza indugio se la si ritiene fondata. Mica si può attendere per ragioni di opportunità politica o istituzionale che il presunto colpevole faccia altri danni, no?

Quel che è accaduto anche in queste ore fa capire come la giustizia resti un tema del tutto irrisolto nella nostra democrazia. E che non esista affatto il bianco o il nero, come ha dimostrato per altro con assoluta evidenza tutta la vicenda di Luca Palamara. Non c’è la dea bendata: i magistrati fanno scelte politiche, fosse anche in buona fede perché non vogliono suscitare un pandemonio istituzionale con i loro atti, ma quella di procedere oggi o domani null’altro è che una scelta politica. Se poi si passa il tempo a parlare invece di lasciare che lo facciano gli atti, l’aspetto politico delle decisioni giudiziarie diventa predominante. Bisognerebbe parlare solo con gli atti, al massimo illustrandoli all’indomani nella coscienza di essere solo una parte del processo, e non una sentenza divina. E ben sapendo che l’indipendenza della magistratura è una cosa, l’immunità dalle critiche ben altra. Si può criticare qualsiasi atto della magistratura e questa non deve sentirsi offesa: i procuratori dovrebbero fingere sordità e fare spallucce invece di rispondere.

Il caso dell’inchiesta di Catanzaro viene a illuminare ancora di più quello che sarà al centro della politica nelle prossime ore: l’eterna questione della giustizia su cui il governicchio Conte bis dimezzato rischia di franare già la prossima settimana con il voto su Alfonso Bonafede e la sua relazione annuale. Inutile che il ministro si lamenti di critiche arrivate prima della lettura del suo documento. Non è a tema quello. Ma l’uso spregiudicato che si fa brandendo avvisi di garanzia e inchieste giudiziarie che come si vede sono utilizzabili a uno scopo e al suo esatto contrario. Resta sempre buona la massima di Pietro Nenni: «Gareggiando a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura». Il M5s che era in gara, ormai ne è fuori: sta arrivando qualcuno più puro di loro che li epurerà, perché con la politica si sono sporcati le mani utilizzando come un chewing-gum anche le questioni morali e di legalità. La stessa regola per uno si applica, per l’altro no. All’interno e all’esterno. Se uno ti serve, lo vedi illibato anche se è un notorio puttaniere. Se non ti serve basta un capello fuori posto per metterlo alla gogna. Ora dovranno vedersela con avvisi di garanzia - come quello a Nicola Zingaretti - su cui chiudere non uno, ma due occhi. Su traditori cacciati a calci nel sedere che devono essere riaccolti a braccia aperte perché questa è la realpolitik. Su costumi assai poco probi in famiglie di persone assai care (il premier) che si deve fingere di non vedere dopo avere messo al muro padri, madri e cognati degli avversari politici come sa bene Maria Elena Boschi, per citarne una. Si capisce, certo. Ma capite anche voi il solo posto dove può finire ora la relazione sulla giustizia di Bonafede...
 

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