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A Conte la paura conviene. Per mantenere la poltrona

Gianlugi Paragone
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Più paura che rabbia, dicono i sondaggi. E non è difficile crederci dopo un anno a fare conferenze stampa quotidiane con il pallottoliere dei ricoveri, dei morti, delle terapie intensive. Dopo un anno passato a marchiare con la lettera scarlatta, la N del negazionismo, chi osava dire qualcosa di diverso, chi osava rivendicare un minimo di spazio intellettuale, un minimo di pensiero dissidente ma non per questo negazionista del virus.
E così, a furia di non poter pensare diversamente, ha prevalso l’arroganza di direttori e personale vario: «Lei non sa chi sono Io». Risultato? L’Italia ha le peggiori e più drammatiche statistiche sia in termini di mortalità (primi al mondo per morti ogni 100mila abitanti, rivela la Johns Hopkins University), sia in termini di collassi imprenditoriali in rapporto alla natura delle nostre attività, come rivelano le associazioni di categoria.
Vince la paura rispetto alla rabbia? Normale, dunque. Persino tra la gente ormai ci si incolpa perché si esce quando si può uscire, secondo lo schema classico della colpevolizzazione della vittima. Cosa sarebbe successo però se tutti i giorni dell’anno oltre ai numeri dei contagiati e dei morti, qualcuno avesse anche comparato altri numeri sanitari, di altri malati (dalle polmoniti ai tumori «di Stato» visto che dal fumo all’inquinamento o all’Ilva lo Stato ha le sue responsabilità)?
Oppure, cosa sarebbe successo se dal primo lockdown a oggi tutti i giorni avessimo cominciato a elencare i numeri del declino economico, dei fallimenti, il numero dei disoccupati (perché i mancati rinnovi dei lavori a tempo determinato di ogni specie o i licenziamenti di chi chiudeva baracca e burattini ci sono eccome), il numero degli sfrattati o degli sloggiati, dei protestati dalle banche con tanto di iscrizione alla centrale rischi?
Se ogni giorno ci fosse stata una ritualità sull’economia reale pari a quella fatta sul Covid, oggi le paure sarebbero due e di pari intensità: la paura di ammalarsi e di soffrire per e con il virus fino magari a morire; e la paura di soffrire il declino economico, di diventare poveri, di essere sfrattati, di diventare dei fantasmi sociali e quindi di morire di un’altra morte. Con la prima il governo ha margine di manovra, con la seconda no.
Dopo la imbarazzante conferenza stampa di Giuseppe Conte, impregnata di arroganza e menefreghismo verso i cittadini, qualcuno ha cominciato ad alzare la testa. E a voler difendere la propria attività d’impresa: commercianti, ristoratori, baristi, albergatori, partite iva nei campi più diversi dal catering allo spettacolo, dai centri estetici ai barbieri, dalle palestre ai mercatali; e poi i professionisti (dagli avvocati ai fisioterapisti), i precari di ogni attività e potremmo proseguire oltre.
Ecco, in tanti hanno cominciato a porsi delle domande: cosa succederà con il nuovo anno? La vita non cambierà, se non nella rassegnazione di dover accettare quel tocchetto di risarcimento che arriva, nella precarietà del lavoro, nella sottomissione al potere dei più forti che questo governo ha rafforzato consegnando nelle mani delle multinazionali un vantaggio contrattuale smisurato. Sono anni - gli anni dell’illusione della felicità europeista - che progressivamente abbiamo barattato i diritti veri (il diritto al lavoro, il diritto alla salute, il diritto alla istruzione, il diritto a essere centrali come cittadini liberi) con il meta-diritto a vivere ipnotizzati nella modernità. 
Il Covid ha accelerato questo mondo/bolla: convivialità via zoom, smart working, consegne del cibo a domicilio, e-commerce sfrenato, esercizio fisico in cameretta a seguire una app, piattaforme televisive in offerta speciale. Il mondo a latere del Covid coincide con una vita in download. Una vita apparente.
 

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