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Caos scientifico da coronavirus: la giungla dei dati che condanna le Regioni

Dario Martini
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Il presidente dell'Istituto superiore di sanità e il direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute hanno spiegato che i 21 indicatori con cui si assegna il rischio Covid alle Regioni sono consultabili dal 30 aprile scorso, dal momento che sono inseriti in un decreto del ministero della Salute. Per Silvio Brusaferro e Giovanni Rezza, quindi, non c'è alcun mistero. I governatori non hanno motivo di lamentarsi. Sanno benissimo perché le loro Regioni si trovano nella fascia gialla, in quella arancione o nella rossa. Peccato, però, che la realtà sia diversa.

È vero che i 21 indicatori sono elencati nel decreto. È altrettanto vero che vengono minuziosamente specificati quali dati vadano raccolti. Il problema, però, che non viene spiegato in alcun modo come debbano essere incrociati per assegnare la categoria di rischio. Asse gnazione che avviene grazie a due algoritmi: quello «di valutazione di probabilità» e quello «d'impatto».

Nessuno dubita che si tratti di strumenti affidabili e attendibili. Allegati al decreto, questi algoritmi vengono spiegati con due schemi che di matematico non hanno nulla. Impossibile capire come funzionino. Ai governatori non resta che una cosa da fare: fidarsi ciecamente. Ma andiamo con ordine e vediamo quali sono questi 21 indicatori. Sono ripartiti in tre categorie: 6 indicatori di «processo sulla capacità di monito raggio», 6 di «processo sulla capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti», e 9 di «risultato relativi alla stabilità di trasmis sione e alla tenuta dei servizi sanitari». Questi ultimi sono i più importanti al fine di stabilire le criticità regionali. Cinque su ventuno, inoltre, sono soltanto «opzionali».

Ma non finisce qui. Per ciascun indicatore va determinata una «soglia» minima affin ché fidato sia valutabile correttamente, e un «valore di allerta» oltre cui è raccomandabile non andare. Facciamo un esempio. L'indicatore 3.8 è il «tasso di occupazione dei posti letto totali in terapia intensiva per pazienti Covid-19». La soglia non deve superare il 30%, livello oltre cui scatta l'allerta. In base ai dati pubblicati dal Ministero relativi alla settimana 19-25 ottobre, nessuna Regione superava 1130%. In Campania era i114%, nel Lazio e in Liguria il 17%, in Lombardia il 18%, in Sardegna il 20%.

Per alcune, però, veniva assegna ta una probabilità superiore al 50% «di una escalation a rischio alto» nelle terapie intensive o nei posti letto delle aree mediche nei successivi 30 giorni. È il caso di Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Molise, Piemonte, Bolzano, Trento, Puglia, Sicilia, Umbria e Val d'Aosta.

Altro indicatore importante è il 3.2, quello che si occupa dell'indice Rt (mostra la capacità di un infetto di contagiare altre persone). È raccomandabile che non sia superiore a 1. Nella settimana 19-25 ottobre, quasi tutte le Regioni aye vano superato questa soglia. I livelli più alti si registravano in Friuli Venezia Giulia (1.47), Lombardia (2.01), Molise (2.1), Umbria (1.45), Veneto (1.47), Piemonte (1.99), Calabria (1.84) ed Emilia Romagna (1.6). Bisogna tenere in considerazione che tutti questi parametri non sono sufficienti, presi singolarmente, ad assegnare illivello di rischio finale («molto basso», «basso», «moderato», «alto» o «molto alto»). Tutto è demandato ai famosi algoritmi che sintetizzano l'ingente mole di dati. E determinano la sorte di milioni di cittadini.

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