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Nicola Zingaretti, sta per crollare il bluff del segretario del Pd

Riccardo Mazzoni
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Presumendo di aver vinto le regionali, Zingaretti ieri ha annunciato, come il Mao de noantri, la “lunga marcia” per far diventare il Pd primo partito italiano. Non sa, il segretario-governatore, che in politica programmare on orizzonte radioso partendo da un grande bluff, spesso significa solo costruirsi un grande futuro dietro le spalle. In effetti nei commenti del dopo voto Zingaretti è stato incoronato, con un martellamento mediatico degno di miglior causa, come il vincitore assoluto, e di conseguenza come il predestinato a dominare la scena politica da ora al semestre bianco di Mattarella. In pochi giorni, insomma, il segretario del Pd è passato da re Travicello sulla cui testa già volteggiavano gli avvoltoi interni (Orlando, Bonaccini) ed esterni (Renzi) a imperatore delle quattro sinistre al governo. Orlando in effetti, con il disastroso risultato nella sua Liguria, si è autoeliminato, e il senatore di Rignano ha definitivamente imboccato il viale del tramonto, con la sua Italia Viva ormai ridotta a un’utilitaria da rottamare. Ma fu vera gloria? Ai numeri l’ardua sentenza, e i dati elettorali smentiscono plasticamente che Zingaretti sia uscito da trionfatore di queste elezioni di medio termine.

Il grande bluff viene smascherato dall’unico raffronto che conta, ossia quello politicamente omogeneo con le precedenti regionali. E qui casca l’asino, perché in Veneto il Pd è sceso dal 16,6 all’11,9 per cento; in Liguria dal già deludente 25,6% del 2015 al 19,9; in Toscana dal 45,9 al 34,7; nelle Marche dal 35,1 al 25,1; in Campania dal 19,4 al 16,9 e in Puglia, infine, dal 19,8 al 17,2. Celebrare dunque la presunta vittoria del Pd come un’affermazione storica “che ha fermato le destre” è stato un esercizio da cicisbei, più che da osservatori oculati, un’alterazione della realtà, una mistificazione dei fatti, una narrazione artefatta da smerciare a un pubblico disattento e privo di senso critico. Zingaretti in realtà non ha affatto vinto: è solo riuscito a perdere meno del previsto, e si è avvalso del meccanismo delle aspettative disattese in Borsa per capitalizzare mediaticamente ciò che politicamente non è avvenuto. Tirando le somme, infatti, il centrodestra ha conservato tutte le sue regioni e ha espugnato, dopo l’Umbria, anche le Marche, un’altra regione rossa che il centrosinistra aveva amministrato per un quarto di secolo. E anche l’aver mantenuto una roccaforte storica come la Toscana, dove il vecchio e ininterrotto sistema di potere comunista controlla ancora saldamente voti e clientele, significa solo scampato pericolo. In Puglia, poi, ha vinto Emiliano, un governatore molto più grillino che piddino, che ha presentato un’ammucchiata di liste zeppe di suoi ex avversari, non disdegnando nemmeno di allearsi con la destra estrema. Per non parlare dello sceriffo De Luca in Campania, che ha trionfato grazie al suo protagonismo anti-Covid attingendo a piene mani candidati dal centrodestra, e che ha passato un’intera campagna elettorale a parlare male del Pd, che infatti non lo voleva ricandidare. Tanto che il sindaco Demagistris ha velenosamente affermato che in Campania in realtà ha vinto il centrodestra.

Quella di Zingaretti è dunque una resistibile ascesa scaturita da una vittoria a sua insaputa, anche se lui sogna appunto in grande e guarda lontano, alle sorti magnifiche e progressive del grillopiddismo, arrivando a sostenere che senza l’alleanza strategica con i Cinque Stelle sarebbe addirittura in pericolo la “tenuta della nazione”. Non lo sfiora il dubbio che se da due anni ad oggi tutti i sondaggi, con qualsiasi legge elettorale, danno costantemente il centrodestra in vantaggio a livello nazionale, qualcosa nel suo ragionamento non funziona. La sua è quindi una rendita di posizione solo provvisoria, che gli ha consentito di portare a casa un pugno di ballottaggi alle comunali e la modifica dei decreti sicurezza - bandiera della sinistra dell’accoglienza indiscriminata - ma l’abbraccio con il grillismo in dissoluzione presenta in prospettiva rischi non certo trascurabili. L’assistenzialismo funziona nel breve periodo, ma la crisi economica causata dal lungo lockdown presenterà presto il conto al governo e al Pd che ne è diventato l’azionista più esposto, perché inseguendo le sirene della decrescita felice si rischia di consegnare l’Italia a una deriva venezuelana. La sinistra è abituata da sempre a piegare la verità alla sua propaganda, ma la realtà ha la testa dura, e questo vale anche per i sogni di gloria di Zingaretti. Il quale, per rifiutare la cooptazione nel governo nazionale, ha appena annunciato di accusare la stanchezza del doppio ruolo di governatore e di leader del Pd. Fratelli d’Italia ha avuto buon gioco nel ricordargli che si tratta di una stanchezza assai poco giustificata, e che l’affaticamento è semmai dovuto alle beghe di partito, oppure ai postumi del famoso aperitivo sui Navigli, e non certo all’impegno di governare il Lazio, visto che non è ancora riuscito a porre rimedio ai disastri da lui stesso provocati su rifiuti e sanità, che restano in perenne emergenza.

Zingaretti è il maestro dell’immobilismo, una tattica che lo ha portato dall’antica militanza nella Fgci fino ai vertici di un partito che col ritorno al proporzionale lui vuol definitivamente condurre alla vocazione minoritaria, con l’obiettivo di certificare per legge l’andazzo degli ultimi dieci anni: stare al governo del Paese senza mai vincere le elezioni. Proprio ciò che è successo alle ultime regionali: il Pd avrebbe vinto perché ha perso meno del previsto, e il centrodestra avrebbe invece perso perché ha vinto meno del previsto. Ma la cuccagna è destinata a finire presto: il governo Conte è puntellato da due debolezze e per ora ha avuto la fortuna di trovare un virus pandemico che, invece di debilitarlo, lo ha rafforzato, ma in questi tempi convulsi leadership e fortune politiche si affermano e finiscono nello spazio di pochi mesi. Come il grande bluff di Zingaretti imperatore delle quattro sinistre.

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