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Giuseppe De Rita: sul coronavirus Conte ha fallito la comunicazione

Il presidente del Censis: "Solo numeri a caso. Abbiamo avuto la conta dei morti, dei contagiati ma senza spiegazione"

Massimiliano Lenzi
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Gli italiani. La paura. La rabbia. Il loro ritorno alla libertà dopo mesi di isolamento domiciliare in tempi di coronavirus. E poi la politica e il tempo che servirà alla gente per tornare ad una normalità quotidiana. Su questo, e non solo, abbiamo intervistato Giuseppe De Rita, sociologo e presidente del CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali). 

Sindaci sceriffi, regioni contro regioni e regioni critiche verso lo Stato: l’Italia sta tornando al feudalesimo?

«No, il feudalesimo in Italia è vecchio e non torna. Il vero problema è che in questo meccanismo di lotta al virus il Potere centrale ha avuto uno scatto di verticalizzazione e di concentrazione del Potere nei poteri centrali. Tutto alla Protezione Civile, tutto all’Istituto Superiore di Sanità, tutti ai dpcm, ai decreti, eccetera, eccetera. Naturalmente questa verticalizzazione dello Stato ha creato qualche problema. Quello delle regioni che si sono sentite escluse; i problemi dei comuni, che si sono sentiti abbandonati su ogni versante. Il problema di tutti i poteri, anche dello Stato, anche degli Enti di ricerca, degli Istituti, dell’informazione, che hanno visto questa verticalizzazione - quasi una statalizzazione - nel fronteggiare l’emergenza. E ovviamente sono arrivate le polemiche, i distinguo e anche le dialettiche forti ma questo non significa il ritorno al feudalesimo. È un’altra cosa. È un accentramento dei Poteri nel Governo, nella Protezione Civile, nel comitato tecnico-scientifico con tutti gli altri che hanno dovuto fare polemica per avere un minimo di voce».

Lei ha citato anche l’informazione. In questo blindarsi dell’Italia nella guerra al virus, l’informazione ha assunto un ruolo troppo conformista? Troppo da cassa di risonanza di questo Stato che nell’emergenza ha verticalizzato tutto, anche il comunicare agli italiani ciò che stava accadendo?

«Il punto è, se mi permette una distinzione, nella differenza tra il comunicare e l’informare. Il Governo ha comunicato. L’informazione non c’è stata. E naturalmente i mezzi di informazione hanno essi stessi comunicato e non informato. Se uno pensa al fatto che giornalmente la Protezione Civile dava il numero dei morti, dei guariti e dei contagiati, senza mai una interpretazione, faceva solo comunicazione, non informava. Perché l’informazione è spiegare, è dare senso ai numeri. Se io dico 25 e non si sa bene cosa significhi 25, se un numero di pagine di un mio libro o qualche altra cosa.... Il vero problema, le ripeto, è che nel momento in cui lo Stato ha deciso di affidarsi nell’informazione alla Protezione Civile e all’Istituto Superiore di Sanità, noi abbiamo avuto una comunicazione senza informazione. Ed i giornali e i media non hanno fatto informazione ma hanno trasmesso la comunicazione». 

In questa crisi, oltre all’aspetto sanitario e ai battibecchi istituzionali, si sono evidenziati anche altri aspetti preoccupanti. Tra questi il rapporto quotidiano degli italiani con la paura. Un esempio: chi cammina senza mascherina per strada viene guardato in cagnesco. Il Censis in passato ha fotografato il rischio del rancore come sentimento nazionale. Gli italiani ai tempi del virus sono più cattivi? Stiamo arrivando all’odio?

«Da quando negli anni passati parlammo di rancore, beh il rancore si è molto smorzato. Perché il rancore è un qualcosa che riguarda un sentimento di astio verso ciò che non c’è stato. È il lutto di quel che non c’è stato. Quindi il rancore ha bisogno di un colpevole. Il mio matrimonio è andato male, la colpa è di mia moglie. La mia carriera in azienda è stata fermata, è colpa del capoufficio. La mia macchina ha sbattuto, è colpa del meccanico che non mi ha risolto il problema alle gomme. Il rancore aveva bisogno di colpevoli. Arriva il coronavirus e non si sa chi sia il colpevole ed il rancore se ne va a pallino. Ed è sostituito dalla paura. Da questa paura. La paura è un fenomeno meno spiegabile del rancore. Il rancore si capisce da dove viene. La paura no. È incontrollabile, è antropologica, la paura è una psicologia collettiva indecifrabile. E quindi la paura ce la siamo tenuta. Io magari non ce l’ho ma la gente ha paura. Il tono complessivo della paura è stato questo».

La politica ha calcato troppo sulla paura durante i mesi più duri della pandemia?

«La paura è venuta per ragioni di psicologia collettiva. Non credo ci sia qualcuno che abbia complottato per mettere paura alla gente. Io ho visto che tutti quelli che avevano paura ce l’avevano davvero non perché era indotta dalla comunicazione. Era una paura antropologica e, a parte le zone rosse, non c’era ragione. Penso a Roma, in Basilicata, penso a Rieti, penso all’Umbria, la paura c’era eppure la situazione dei morti non era certo come quella delle zone rosse. La paura è stata qualcosa di indecifrabile e di non regolabile. Di non organizzabile. Ed allora si è dovuto lasciarla andare. Più che incentivarla si è lasciata andare la paura. E naturalmente la paura se la si lascia andare senza un contrasto agisce per giorni, per mesi, per anni. Il fatto vero è che ad un certo punto poi la paura è diventata, come succede sempre in questi casi, anche rabbia». 

Perché rabbia?

«Perché sulla paura c’è stata la divisione psichica che è tipica degli italiani. Chi aveva paura e chi non aveva paura. Divisione e rabbia degli uni verso gli altri. "Come, tu esci senza mascherina?". E la rabbia feroce contro quello che non portava la mascherina all’aperto. Ma ci credi o no nei virologi? Altra divisione. È giusto che l’intervento dello Stato sia così massiccio? E giù un’altra spaccatura ulteriore. La divisione ha portato la paura ad essere rabbiosa. E non ne usciremo tanto presto se non avremo modo di levarci di dosso non tanto la rabbia ma la paura che c’è sotto». 

Lei vede un modo per spingere gli italiani a scrollarsi di dosso la paura?

«Ehhh. C’è gente che aspetta il vaccino e dice: "La paura non ce la avrò più quando ci sarà il vaccino, me lo farò e starò tranquillo per i prossimi anni". Personalmente ritengo che noi la paura la perderemo giorno per giorno, man mano che continueremo a vivere. Diciamoci una cosa: ieri in giro per Roma si sentiva meno paura rispetto ad una settimana fa od a quindici giorni prima. Ad un certo punto, lentamente il ritorno alla vita ci toglierà la paura. Stasera vado al ristorante? Dopo 50 giorni e passa che non ci vado, stasera ma sì ci vado, non ho più paura e vado a cena fuori. Man mano che si torna alla vita ci si scrolla la paura. Nel lockdown, nell’isolamento forzato, la paura non poteva che esserci». 

Un’ultima domanda: il ruolo internazionale dell’Italia. Durante questa crisi da virus noi abbiamo visto una parte della politica guardare con una certa simpatia verso la Cina, che inviava le mascherine. Con una certa freddezza verso gli Usa e con un sentimento altalenante verso la Ue. Vede il rischio che il coronavirus sposti la collocazione internazionale dell’Italia?

«La collocazione internazionale dell’Italia non si sposta per quattro mascherine dalla Cina o per quattro camion dalla Russia».

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