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A Conte la mascherina griffata, alle imprese solo le briciole

Il premier fa sfoggio della protezione firmata dal sarto Talarico ma ha il braccino corto con i lavoratori. Le paga a 3.150 aziende su 250mila

Franco Bechis
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Questa volta se le è comprate lui: 7 cravatte e 5 mascherine blu con la bandierina di Italia sulle une e sulle altre. Giuseppe Conte se le può permettere, e siccome è un uomo di grande stile, ha mandato un suo segretario di palazzo Chigi ad acquistarle da una delle principali griffe della cravatta italiana, Talarico, che ha il negozio vicino al Senato della Repubblica. Al pubblico il prezzo della mascherina è di 30 euro. Sembra elevato, ma bisogna capire che è specialissima: in seta, igienizzata da un'azienda specializzata in nano-tecnologie che è per altro fra i fornitori ufficiali di palazzo Chigi. Grazie a quel trattamento igienico che si chiama «4wdTex» di mascherina al premier potrebbe bastarne una sola, ha spiegato ieri Maurizio Talarico a Un giorno da pecora, perché non ha bisogno di essere lavata: respingerà sempre i batteri ad ogni utilizzo. «La particolarità di 4wdTex», spiega l'azienda, «è quella di rivestire tridimensionalmente in scala nanometrica ogni singolo filamento della fibra tessile, senza modificare né l'aspetto né la consistenza del tessuto».  Per approfondire leggi anche: Giuseppe Conte fa tendenza Fidarsi è bene, non farlo è meglio, così Conte ha fatto provvista di qualche capo in più e ha già sfoggiato in qualche occasione sia la cravatta che la mascherina patriottica, per ora non abbinandole: attende che gli sfoderino anche la pochette batterio-repellente, e poi si presenterà vestito tutto in tinta. Lo fa solo nelle occasioni speciali, perché per quelle ordinarie come litigare in aula con Matteo Salvini o Giorgia Meloni il premier griffato usa il più banale arsenale di mascherine di cui palazzo Chigi ha fatto incetta già a fine febbraio in anticipo su tutte le altre amministrazioni pubbliche e ovviamente sui normali cittadini italiani che ancora oggi percorrono km alla ricerca di quelle famose mascherine a 50 centesimi (più Iva: 61 centesimi totale) che Domenico Arcuri aveva promesso di portare in ogni punto vendita e invece restano più rare del Gronchi rosa. Come i normali cittadini anche le imprese si sono trovate l'ultima beffa sulle mascherine. Il governo aveva messo a disposizione dei contributi a fondo perduto (e dei crediti di imposta) per la sanificazione degli ambienti e l'obbligo di mascherine e di protezioni personali sul posto di lavoro disposto per chi poteva tenere aperto senza riuscire a garantire le distanze. La spesa che avevi effettuato regolarmente comprovata da fatture doveva essere caricata su una apposita sezione del sito di Invitalia per un click day che doveva partire alle ore 9 del mattino del giorno 11 maggio. I fondi a disposizione non erano tantissimi, quindi i primi a cliccare sarebbero stati i più fortunati. Quel giorno però si sono registrate e prenotate 249.681 imprese, ma ce l'hanno fatta a prendere il contributo solo 3.150 di loro. Sicuramente le più svelte, perché il clic buono è durato solo un secondo e 4 centesimi: da lì in poi tutti sono stati esclusi. Una figuraccia colossale, davanti a 1,2 miliardi di euro di rimborsi richiesti e un plafond di 50 milioni. Migliaia di esclusi non ce l'hanno fatta per meno di un centesimo di secondo, una cosa che nello sport avrebbe imposto il fotofinish e l'esame dei giudici di gara. Certo più che un dito hanno avuto una scossa elettrica i primi tre ad avercela fatta: la Brumar srl di Asti (19,4 milioni di fatturato, 44 dipendenti e un rimborso chiesto di 21.500 euro), la Casal srl di Fossò provincia di Venezia (4,2 milioni di fatturato, 31 dipendenti e 8.895 euro richiesti) e la Nugnes 1920 di Bari (25,1 milioni di fatturato, 29 dipendenti e 2.713 euro richiesti). Allo stesso modo una sfortuna pazzesca per i primi tre esclusi per un ritardo inferiore al centesimo di secondo: la Cima spa di Mirandola, provincia di Modena (47,4 milioni di fatturato, 119 dipendenti e 2.200 euro richiesti), la Suzuki Italia di Torino (487 milioni di fatturato, 154 dipendenti, 21.462 euro richiesti) e Manpower, la più grande agenzia di lavoro temporaneo (1,2 miliardi di fatturato, 40.867 dipendenti e 150 mila euro di rimborso richiesti). Ma così è andata per la stragrande maggioranza di imprese piccole, medie e grandi a cui non sarà rimborsato nulla di quel che è stato speso. Era la prima ideona di Arcuri che ancora non era andato a fare pasticci con gli apparecchi elettromedicali e le mascherine. E racconta una volta di più come il governo divida gli italiani fra amici e nemici della sua maggioranza. Gli amici sono tutti al caldo e protetti, i nemici si arrangino, è già tanto che qualcosa venga previsto per loro con formule grottesche come questa della lotteria Invitalia.

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