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Quelladella sinistra di trasformare una grande banca locale, il Monte dei Paschi di Siena, in un colosso finanziario nazionale e internazionale. A farla fallire la presunzione della politica. Nella fattispecie quella ispirata dal sogno marxista che conosce il nemico, il grande capitale, per combatterlo con i suoi stessi mezzi. Peccato che siano stati propri i derivati, le armi di distruzione di massa dei fondi speculativi, a sancire ancora una volta il crollo del sogno di guidare il denaro verso fini più alti, in una visione etica diversa dall'arricchimento personale. Solo un sogno appunto che ha una sua genesi e un protagonista. L'inizio è il 1996 e l'uomo è Massimo D'Alema. Che proprio in quell'anno sotto la sua guida porta il Pds a essere il primo partito nazionale nelle elezioni. Solo un anno prima la banca senese, punto di riferimento del tessuto imprenditoriale toscano che vede nella continuità amministrativa assicurata dalle giunte di sinistra, il miglior strumento per garantire lo sviluppo e la creazione di ricchezza, con un decreto del ministro del Tesoro si divide in due pezzi. La banca, società per azioni, e la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, istituto di diritto pubblico. È l'effetto della legge Amato che doveva nelle intenzioni costruire un fossato, unito solo da piccoli ponti, tra l'attività bancaria pura e il settore pubblico fino a quel momento unico e quasi incontrastato dominus del credito in Italia. La fondazione senese però, che doveva limitarsi a gestire le quote societarie della banca, non è mai scesa (solo fino a qualche mese fa) sotto il 50% del capitale, i suoi organi continuano a essere espressione delle giunte della città e della provincia, sempre di sinistra. Morale: si chiamasse Pds o Ds, il controllo sul MontePaschi è stato sempre stretto e politicamente orientato. Un meccanismo che, finché è durato, ha dato i suoi frutti. La banca produceva utili, a volte come dimostrato dall'operazione Alexandria anche creati artificialmente, e gli stessi finivano in buona parte nelle casse della Fondazione che li impiegava sul territorio con finalità sociali. Tutto bene, dunque, fino a quando D'Alema, politico di grande intuizione, immagina il salto del Mps dalla dimensione locale a quella nazionale. Obiettivo espansione, dunque, nel nome di un grande polo della finanza «rossa». Un nuovo ingresso nel duopolio fino ad allora incontrastato tra finanza laica e finanza bianca. Il primo passo parte dal Sud della Puglia. Zona di influenza del leader Pds e nella quale opera la Banca del Salento. Radicata e ricca nel territorio. Non è difficile convincere gli azionisti a cedere le loro quota a Siena. Il prezzo offerto è impossibile da rifiutare: 2600 miliardi delle vecchie lire. Alto secondo gli analisti e con una conseguenza: la distruzione del valore intangibile del radicamento sul territorio con il cambio delle insegne. All'interno dell'istituto il MontePaschi trova un piccolo gioellino, la Banca 121, o One to One, nata per ridare efficienza gestionale agli sportelli del credito salentino comprati su invito della Banca d'Italia. La 121 è giovane e spregiudicata, smonta e rimonta prodotti finanziari con grande maestria, e incrementa la redditività al di sopra della media di settore. Per vendere innova. Usa internet e i canali non tradizionali e crea i negozi finanziari aperti da una splendida Sharon Stone negli spot dell'epoca. Siamo nel 2000 e il futuro del settore bancario, oggi, è già dentro la 121. Al comando un manager come Vincenzo De Bustis, ingegnere elettronico, che porta la piccola banca a contare 220 sportelli e quasi 20 mila miliardi di lire di raccolta. Vicino al leader Maximo, così narrano le cronache, arriva nel board del Monte dei Paschi. Ed è lui che oltre a gestire l'aggregazione deve lavorare al sogno del grande polo della finanza rossa. Siena si pone allora come il perno del consolidamento bancario italiano avviato nei primi anni del millennio. La sinistra vuole la sua banca. Grande e potente. Prova a entrare nella roulette della Banca Nazionale del Lavoro. De Bustis tratta per sposarla con Siena ma da Via Veneto gli rispondono picche. Ci riprova l'alfiere Giovanni Consorte e la sua Unipol che tentano con destrezza la scalata alla Bnl dopo l'estate convulsa dei furbetti del quartierino. Di quel tentativo resta solo una frase, emblematica. È quella di Fassino intercettatto mentre Consorte gli annuncia l'esito dell'Opa sulla Bnl: «Allora abbiamo una banca». Fine del sogno ma non dell'intenzione. Il Mps e la sinistra nazionale non ci stanno. Bisogna crescere e continuare a sperare nel grande polo finanziario. L'occasione è a un passo. A Nord. Ed è la Antonveneta, la banca contesa fra Popolare di Lodi e gli olandesi di Abn Amro a cui succedono gli spagnoli del Santander. Entra in campo Mussari, a quell'epoca presidente della banca e si aggiudica l'istituto veneto a un prezzo già all'epoca giudicato elevato: 10,3 miliardi contro i 6,6 pagati da Emilio Botin, dominus della banca iberica, qualche mese prima. Un'operazione dai contorni non chiari e che spingono solo qualche mese fa i pm dei Siena a mandare la Guardia di Finanza a cercare documenti nella sede. Il grande sogno finisce ancora con gli ispettori e i magistrati in casa. I derivati sono cronaca di oggi e segnano ancora una volta l'amaro destino del grande disegno finanziario. Un fallimento spiegato da una semplice ragione: quando la politica entra nel mercato e cerca di dettare la legge, perde. È la regola. E Bersani intuito il pericolo mette le mani avanti «il Pd fa il Pd e le banche fanno le banche». E infatti i problemi si verificano proprio quando il Pd cerca di fare la banca. La vittima resta il Mps che dopo questa operazione è più solo, più piccolo, ma forse più sano. Perché il suo patrimonio netto ora risponde a maggiore verità. Ed è probabilmente più alto rispetto a quello che esprime in questo momento il mercato.

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