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di Francesco Damato Nelle vesti, che non gli sono d'altronde nuove, di severo ayatollah della sinistra italiana, ieri guidata dal Pci oggi dal Pd, e anche a costo di sostituirsi al giurisperito cui di solito ricorre in queste circostanze il g

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Enon solo a Silvio Berlusconi. In particolare, non piace a Scalfari che il presidente del Consiglio dimissionario non sia disposto dopo le elezioni a mettersi sostanzialmente a disposizione del prevedibile vincitore Bersani. Come fece invece a suo tempo il «tecnico» Carlo Azeglio Ciampi con Romano Prodi, diventandone nel 1996 ministro del Tesoro pur avendo guidato fra il 1993 e il 1994 un governo di transizione. Che fu l'ultimo della cosiddetta prima Repubblica, suggerito dal Pds-ex Pci di Achille Occhetto e confezionato in quattro e quattr'otto al Quirinale dall'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro. O come fece Giuliano Amato, che da presidente del Consiglio, su designazione di Bettino Craxi, fra il 1992 e il 1993 accettò di passare al ruolo di ministro in altri governi per tornare a Palazzo Chigi nel 2000, su designazione questa volta di Massimo D'Alema. Monti, diavolo di un uomo, si è invece messo in testa e ha realizzato l'idea di una «nuova entità politica», come l'ha chiamata il buon Giorgio Napolitano, e si è riproposto alla guida del governo dopo le elezioni. O guida, nel caso in cui Bersani dovesse avere i numeri della fiducia solo alla Camera e non anche al Senato, come potrebbe accadere con questa diabolica legge elettorale sopravvissuta ad un anno di trattative più o meno finte per riformarla, o niente. Già, perché nel caso in cui Bersani dovesse fare il pieno, o quasi, dei premi regionali di «governabilità» al Senato ed avere quindi con il suo alleato Nichi Vendola una maggioranza parlamentare autosufficiente, Monti potrebbe essere tentato di restarsene alla finestra. Magari assistendo allo spettacolo proposto al segretario del Pd da un Berlusconi contento di stare recuperando alcuni punti nei sondaggi con la sua campagna elettorale: lo spettacolo di una maggioranza politica molto larga, in nome dell'emergenza o qualcosa di simile, composta dai due partiti più votati, purché senza Monti, ormai politicamente indegno, anzi «immorale», per ripetere un aggettivo sfuggito - spero - al Cavaliere ieri in una intervista. Un aggettivo, quest'ultimo dell'«immorale», che Scalfari si è risparmiato nella fatwa di ieri a carico del presidente del Consiglio dimissionario e insieme aspirante, ma ci è andato assai vicino rivolgendosi direttamente a lui con queste parole: «Mi preoccupo per quello che sei ora e riesci persino a spaventarmi per quello che potresti fare se, non vincendo il piatto, lo vorrai comunque tutto per te». E diventare, sempre con quel pensiero di rimanere a Palazzo Chigi dopo le elezioni alla guida di un governo, stavolta non più tecnico ma politico, imposto dal «ricatto» dei numeri parlamentari, «il nuovo Ghino di Tacco», ha scritto in un altro passaggio della sua fatwa Scalfari riesumando immagini e toni da lui stesso usati negli anni Ottanta contro Bettino Craxi. Che, come il brigante medievale di Radicofani con chi passava dalle sue parti, «taglieggiava» la Dc imponendole prima di insediarlo a Palazzo Chigi e poi di lasciarvelo anche oltre la media abbastanza bassa di durata dei governi della prima Repubblica. Che di solito non resistevano più di un anno all'usura delle correnti democristiane e degli alleati, ma con Craxi riuscirono, sia pure in due edizioni, a resistere quattro anni, dal 1983 al 1987. Va detto che Bettino non si offese per niente del paragone con Ghino di Tacco. Del quale andò a studiarsi la storia, scoprendone il bene, e non solo il male fatto in quel di Radicofani, comprovato dal favore che poi gli accordò il Papa Bonifacio VIII. E ne assunse felicemente il nome per firmare i suoi «corsivi» sul giornale ufficiale del Psi, oltre a dedicargli un saggio e ad organizzare convegni e raduni giovanili in suo onore in Toscana. E non fu solo in questa rivalutazione e simbiosi. A difendere Ghino di Tacco, e il suo presunto emulo negli anni Ottanta, scese in campo davanti ad un congresso della Dc, facendo impallidire il segretario del partito Ciriaco De Mita, anche Arnaldo Forlani. Che, oltre ad essere il presidente dello scudo crociato, era in quel momento il vice di Craxi a Palazzo Chigi. Altri tempi e altri uomini, si dirà. È vero. Tempi e uomini inimitabili. Stento a immaginare, per esempio, un congresso del Pd con qualcuno disposto ad alzarsi e a sostenere la conferma di Monti dopo le pulizie che ha fatto con le liste nei giorni scorsi, e va completando in queste ore, il buon Bersani. Le cui lame sono cadute inesorabili sugli estimatori della cosiddetta agenda Monti. E ne hanno avvantaggiato, con l'aiuto delle primarie d'apparato di fine anno, i detrattori: da Stefano Fassina in su e in giù, e di lato. Ripeto, altri tempi e altri uomini. Ma non altri problemi, essendo in ballo sempre le stesse cose: la natura della sinistra, il riformismo vero e non verbale, l'autonomia della politica dal sindacato e la capacità di non farsene ricattare.Una capacità che Craxi a Palazzo Chigi dimostrò sfidando nel 1984 il veto della Cgil, sbandierato dal Pci di Enrico Berlinguer, con un decreto sulla scala mobile dei salari che fermò e invertì la deriva inflazionistica. Ma sfidando anche Scalfari, che in precedenza aveva difeso la barba di Carlo Marx dalle forbici che il neo-segretario socialista aveva afferrato promuovendo sull'Espresso a «Vangelo socialista» il pensiero e la pratica umanitaria di Pierre-Joseph Proudhon. Sembravano polemiche arcaiche e inutili, come erano state ai loro tempi, le prediche di Luigi Einaudi. Erano invece i semi di un processo di evoluzione politica che sarebbe stato tragicamente interrotto poi dalla corruzione nei partiti, dalle non meno gravi esondazioni giudiziarie che ne derivarono e da una ventina d'anni di bipolarismo sprecato. Un processo che Monti potrebbe ravvivare scomponendo nelle urne i vecchi schieramenti e componendone di nuovi.

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