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Nicolas può perdere perché non è stato un buon «riunificatore»

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Lapartita si gioca in un pugno di voti. E da essi dipenderà il destino della Francia ed in parte dell'Europa. Lo ha detto e ridetto Nicolas Sarkozy nel backstage del suo ultimo comizio in Vandea. E dove altro poteva concludere la sua cavalcata elettorale il presidente che cinque anni fa aveva promesso che all'Eliseo avrebbe portato antichi valori sulle ali di una politica nuova? Lì, nella regione-simbolo da oltre due secoli di quella «certa idea» della Francia che razionalismo, illuminismo e laicismo non sono riusciti a cancellare, il presidente ha raccolto le ultime risorse - anche retoriche - del suo «destrismo» e le ha rilanciate. Ha ricordato, tra l'altro, che è stato un gravissimo errore non aver inserito nel preambolo della Costituzione europea il riferimento alle radici cristiane. Lodevole memoria di una «dimenticanza» commessa soprattutto da due suoi predecessori: Valery Giscard d'Estaing, che come presidente della Convenzione, si oppose energicamente e Jacques Chirac che non disse una parola al riguardo, come se la cosa non lo riguardasse come cattolico, uomo di destra e presidente della Francia considerata «figlia prediletta» dalla Chiesa di Roma. Ma tant'è. La Senna s'è portata via negli ultimi 17 anni una storia che gli ultimi due presidenti avrebbero dovuto difendere. Adesso uno vota per il candidato socialista, l'altro tenta di difendersi come può per conquistare quel pugno di voti. Riuscirà la chouannerie sarkozysta, muovendo dall'ultima trincea tradizionalista e conservatrice di Francia, la Vandea appunto, a riconquistare l'Eliseo alla destra più distratta che si sia vista al potere in Europa negli ultimi cinque anni? È difficile, ma non impossibile. Nonostante l'endorsement di François Bayrou in favore di Hollande, l'uscente continua a sperare. A sperare, soprattutto, che la maggior parte degli elettori di Marine Le Pen non la imitino mettendo una scheda bianca nell'urna, ma riconoscano in quello spiraglio che la leader del Fn ha aperto quando ha chiesto al «suo» popolo di «votare secondo coscienza», un invito a non far vincere la gauche. Ed in molti elettori frontisti la tentazione di dare la preferenza a Sarkozy è fortissima. Perciò Hollande non può ancora sentirsi la vittoria in tasca. Se il «miracolo» dovesse accadere, l'Ump, il presidente, il suo elettorato sapranno comportarsi di conseguenza, e cioè riconoscere al Fn il ruolo che gli spetta nella politica francese dopo averlo «saccheggiato» fino ad aderire politicamente e culturalmente alla sua proposta sintetizzabile nella metafora della «preferenza nazionale»? Al quartier generale della Le Pen non si fidano. Se anche Sarkozy dovesse prendersi i due terzi dei sei milioni e mezzo di voti ottenuti dalla leader del Fn ed assicurarsi la vittoria per un soffio, non cambierebbe niente nella strategia lepenista. Nessuno nel Front immagina la benché minima gratitudine da parte di Sarkozy e tutti sanno che alle legislative del prossimo mese il partito dovrà farcela da solo. La triangolazione non funziona: in un possibile ballottaggio tra un candidato frontista ed uno socialista, l'Ump darebbe indicazione di votare il socialista. Perciò l'appello che qualche giorno fa l'accademico di Francia, Jean d'Ormesson, ha lanciato sul «Figaro» affinché si riuniscano attorno a Sarkozy «tutte le forze della nazione», è destinato a cadere nel vuoto. E, ci dispiace contraddire il grande intellettuale transalpino, ma il presidente ha dimostrato di essere tante cose tranne che «un riunificatore». Perdere contro un mediocre burocrate socialista per Sarkozy sarebbe peggio che se avesse perso contro Ségolène Royale. Questa incarnava la passione socialista del vecchio mitterrandismo, il suo ex-compagno che rischia oggi di diventare presidente sarebbe un «inquilino per caso» dell'Eliseo. Fino a quando Dominique Strauss-Khan era vivo politicamente, nessuno pensava ad Hollande. E c'è voluto tutto l'estremismo gauchiste di Martine Aubry per perdere le primarie e consacrare Hollande candidato. Il male minore, insomma. Anche questo, a ben vedere, va messo sul conto di Sarkozy. Se avesse davvero riunito le forze nazionali francesi, se avesse interpretato al meglio il gollismo rinnovato, se avesse coltivato le radici di una politica europea non subalterna alla tecnocrazia di Bruxelles e di Francoforte, né allineata con quella tedesca, se avesse avuto il coraggio di scalarla quella «piramide dei nuovi valori» a cui si riferì nel memorabile discorso al Bourget nell'autunno del 2006 quando fondò sulle rovine dell'Rpr, lo sfolgorante Ump, se tutto questo ed altro ancora avesse fatto, bandendo narcisismo, familismo, nepotismo, non staremmo a parlarne qui come un possibile, probabile sconfitto. E da chi, poi? Da un signor nessuno che rischia di portare la Francia al livello della Spagna o della Grecia. Da domani, comunque finirà, anche la fisionomia dell'Europa cambierà. Se dovesse farcela l'uscente non potrebbe più continuare sulla via percorsa fin qui, ma dovrebbe tener conto delle indicazioni degli elettori che non ne possono più di questa Europa. Se, al contrario, a prevalere dovesse essere Hollande la sua ossessione di aumentare la spesa pubblica introducendo più tasse farebbe saltare qualsiasi politica di sostenibile rigore ed avvierebbe al declassamento inevitabile il suo Paese. Insomma, c'è poco da stare allegri. I domani non cantano in Francia...

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