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La parabola dei leghisti dal cappio ai soldi spariti

Umberto Bossi nel raduno di Pontida del 1995

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Sono mancati, almeno sinora, soltanto gli arresti ma non gli altri elementi della retata nelle operazioni eseguite ieri nelle sedi della Lega, nell'abitazione genovese del suo tesoriere Francesco Belsito e negli uffici di Che sono stati sguinzagliati dalle Procure della Repubblica di Milano, Napoli e Reggio Calabria per cercare e sequestrare documenti utili ad una serie di indagini alquanto rischiose per il partito e per la stessa famiglia di Umberto Bossi. Della o delle cui storie, politiche ma anche umane, tutto francamente si poteva prevedere, quando cominciarono, ma non che potessero concludersi, o solo rischiare di concludersi in questo modo. Persino peggiore di come si sono chiuse a suon di tangenti le vicende dei vecchi partiti di governo della cosiddetta prima Repubblica così disprezzati dalla Lega, che costruì le sue fortune elettorali e politiche sulle loro disgrazie, sino a festeggiarle nelle aule parlamentari con spettacoli da forca. È rimasto celebre, in particolare, il cappio sventolato a Montecitorio il 16 marzo del 1993 dal deputato del Carroccio Luca Leoni Orsenigo, tra le inorridite proteste dell'allora presidente della Camera Giorgio Napolitano, per auspicare, anzi sollecitare l'esercizio di una giustizia sommaria contro gli avversari politici raggiunti da semplici avvisi di garanzia, come quelli notificati ieri a Belsito, prima ancora di attenderne gli sviluppi, spesso destinati neppure a tradursi in processi. O a coinvolgere nei processi la stessa Lega, come accadde al suo leader nazionale e all'allora tesoriere Alessandro Patelli per le tangenti Enimont. Che costarono sia a Bossi sia al cassiere leghista nel 1995 una condanna a otto mesi, confermata in appello nel 1997 e in Cassazione nel 1998: una condanna modesta al pari della tangente incassata, e restituita con una colletta dei militanti, diversamente da quelle miliardarie, in vecchie lire, percepite dai partiti più grandi, ma pur sempre una condanna. Che avrebbe dovuto forse consigliare già allora ai "giustizieri" del Carroccio maggiore cautela nell'approccio con certa propaganda. Ma quelli erano tempi particolari, nei quali ai nuovi arrivati sulla scena politica si facevano, almeno sul piano mediatico, sconti negati a quelli che avevano avuto la sventura, o la sventatezza, di avervi voluto rimanere troppo a lungo, e spesso - perché no? - anche troppo disinvoltamente. La Lega, d'altronde, per quei suoi metodi spicci di azione politica, piacque molto e subito anche agli esigenti magistrati milanesi di "Mani pulite". Che, pur non potendo fare a meno di contestare ai suoi dirigenti l'incidente, chiamiamolo così, dei soldi ottenuti da Enimont, ne riconobbero l'aiuto prestato alla Procura di Milano partecipando e spesso anche promuovendo le manifestazioni a favore delle indagini esplose con l'arresto di Mario Chiesa. Di cui è ricorso il ventesimo anniversario il 17 febbraio di questo 2012, l'anno forse orribile proprio della Lega. Che pensava di avere trovato nella dura, spesso spietata opposizione al governo tecnico di Mario Monti, condotta con un linguaggio persino minaccioso sul piano fisico, un'occasione preziosa e irripetibile di rilancio elettorale, dopo i tanti segnali di stanchezza e di disaffezione raccolti negli ultimi tempi, aggravati da macroscopiche tensioni interne. E si trova invece improvvisamente sprofondata in questa brutta vicenda giudiziaria, dove sono peraltro confluite, gonfiandosi di altri aspetti non proprio esaltanti, le notizie già emerse nelle scorse settimane all'interno dello stesso movimento sui singolari investimenti effettuati dal tesoriere in Tanzania gestendo i lauti rimborsi elettorali. Con i quali i partiti - tutti i partiti, e non solo la Lega, in verità - decisero disinvoltamente nel 1993 di aggirare l'abolizione del finanziamento pubblico appena disposta dagli elettori con tanto di referendum. Ad apprezzare il sostegno della Lega alla fase iniziale del ciclone giudiziario che sconvolse nel biennio 1992-93 la cosiddetta prima Repubblica fu l'allora capo in persona della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, che pure era parco di parole, diversamente dai suoi sostituti, primo fra tutti naturalmente Antonio Di Pietro. Del quale i leghisti anche nel 1994, quando si erano già alleati per la prima volta con Silvio Berlusconi, si affrettarono a raccogliere le proteste contro un decreto legge condiviso e firmato al Quirinale persino da Oscar Luigi Scalfaro. Che non era certamente sospettabile né di simpatie per il Cavaliere, da lui nominato a malincuore presidente del Consiglio dopo una vittoria elettorale che non aveva potuto nascondere come la polvere sotto i tappeti del suo ufficio, né di antipatie verso la Procura milanese. Al cui capo egli aveva curiosamente esteso nel 1992 le consultazioni di rito per la soluzione della crisi di governo d'inizio legislatura ricavandone il motivo per negare l'incarico a Bettino Craxi, prima che la delegazione della Dc facesse in tempo ad esprimere formalmente la disponibilità a sostenere l'allora segretario socialista. Quel decreto contro cui Di Pietro protestò davanti alle telecamere anche a nome dei suoi colleghi, minacciando la rinuncia alle indagini che con loro stava conducendo contro il finanziamento illegale della politica, aveva il grave torto, ai suoi occhi, di limitare il ricorso "cautelare" alle manette. Di cui si era fatto sino ad allora un uso alquanto disinvolto, non sfuggito neppure all'attenzione di Scalfaro, più per intimidire gli indagati e spingerli a dire ciò che agli inquirenti premeva che per evitare la loro fuga, o ripetere il reato, o occultare le prove, o inquinare quelle già raccolte o a portata di mano dei magistrati, come prescriveva la legge in una sua corretta interpretazione e applicazione. Fu tale la voglia della Lega di condividere e soddisfare le proteste di Di Pietro e dei suoi colleghi della Procura che l'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni, peraltro avvocato, arrivò a dire di avere apposto la sua firma sotto quel provvedimento, dopo il Guardasigilli Alfredo Biondi, senza averne ben letto e compreso il testo. E ne chiese il ritiro, per quanto già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e applicato con la scarcerazione di alcuni imputati. Il decreto decadde in silenzio. Che era il reato contestando il quale i magistrati inquirenti di Milano ritenevano, una volta ammanettati gli indagati, di potere più facilmente e speditamente arrivare a contestare quelli più gravi di concussione e corruzione. E il decreto decadde in silenzio, avendo Berlusconi preferito rinunciarvi piuttosto che rompere con la Lega e anticipare di qualche mese la crisi del suo primo governo. Che fu provocata in dicembre da Bossi per le pensioni, ma dopo che il Cavaliere aveva ricevuto dalla Procura di Milano il primo di quello che sarebbe stato un lungo elenco di avvisi di garanzia, o a comparire, per processi destinati a mancare l'obbiettivo penale, ma non quello del logoramento perseguito dai suoi avversari politici. Certo, per una Lega così ferrigna sul fronte o sul crinale del giustizialismo, per quanto negato ogni tanto dal suo capo, per esempio quando ha voluto o gli è capitato di salvare dal carcere preventivo qualche parlamentare del Pdl, come i deputati Marco Milanese e Nicola Cosentino, ma non Alfonso Papa, lasciato ammanettare nella scorsa estate dai leghisti di tendenza maroniana; per una Lega, dicevo, così ferrigna deve essere stato duro ieri sentirsi e vedersi sottoposta, sia pure senza arresti, ai riti di una retata. E scorgere all'opera davanti o nella sua sede centrale un magistrato venuto da Napoli e di nome Henry John Woodcock: uno che notoriamente, senza volere scomodare la buonanima di Francesco Cossiga ricordandone i giudizi urticanti, sembra fatto apposta, volente o nolente, per farti venire gli incubi se finisci nei suoi fascicoli. Ma sono gli imprevisti della vita, e della politica. Specie quando questa presta il fianco, e qualcosa anche di più, alla mano pesante degli inquirenti. E, ad occhio e croce, pur nella doverosa attesa garantistica delle prove invocata o raccomandata dal tesoriere, comunque dimissionario, ed ex sottosegretario dell'ex Ministero della semplificazione legislativa, Francesco Belsito, l'uso dei fondi pubblici destinati alla Lega, sia pure con la stessa, non condivisibile, direi anzi agghiacciante generosità riservata agli altri partiti dalla legge sui cosiddetti rimborsi elettorali, specie in un momento come questo, in cui si reclamano e si impongono sacrifici a tutti, non brilla di chiarezza. Come dimostrano le proteste tornate ieri a levarsi, all'interno del partito, da Maroni. E l'invito dell'eurodeputato leghista Matteo Salvini a non parlare di «complotti».

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