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La stagione di "Mani pulite" non è chiusa

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Più ci allontaniamo dal 17 febbraio e più infausto diventa il ventesimo anniversario del giorno in cui con l'arresto di Mario Chiesa scoppiò a Milano il bubbone di Tangentopoli. E si aprì, diffondendosi rapidamente in tutta Italia, una stagione giudiziaria e politica chiamata con troppa enfasi «Mani pulite», visto come si è chiusa. Anzi, come non si è mai chiusa. Lo dimostrano le cronache di questa incipiente primavera o, come preferite, di questo inverno agli sgoccioli. Dalla Lombardia alla Puglia, dal Piemonte al Lazio, dalla Liguria alla Campania, dall'Emilia Romagna alla Calabria, dall'Abruzzo alla Basilicata, dalle Marche alla Sicilia, se non mi è sfuggito altro, è tutto un fiorire di avvisi di garanzia, di arresti e di anticipazioni di inchieste per gli stessi reati nei quali cominciò ad affogare quel 17 febbraio del 1992 la cosiddetta Prima Repubblica. «Come prima più di prima», viene voglia di dire parafrasando la celebre canzone di Tony Dallara e Domenico Modugno degli anni Cinquanta. Mancano sinora i suicidi di arrestati o solo indagati, rispetto ad una ventina di anni fa. E spero davvero che continuino a mancare, anche per risparmiarci lo spettacolo rivoltante, che fu invece dato allora, di inquirenti e forcaioli mediatici tutti presi a sostenere che quegli sventurati si fossero uccisi solo per rimorso, ammettendo la loro colpevolezza, e mai per penosa, drammatica rivolta contro una gogna immeritata. Della sostanziale, avvilente inutilità di quella prima stagione di rumorose inchieste si è recentemente dichiarato convinto anche uno dei suoi protagonisti, forse non il più famoso per i giovani, ma sicuramente il più rispettabile per non avere investito in politica la celebrità o l'autorevolezza procuratagli dalle funzioni giudiziarie. «Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani pulite. Non valeva la pena buttare all'aria il mondo precedente per cascare in quello attuale», ha dichiarato Francesco Saverio Borrelli, capo nel 1992 della Procura di Milano, il superiore cioè del «sostituto» che sarebbe invece diventato il simbolo di quelle indagini: Antonio Di Pietro.   Anche per questo coraggio di chiedere «scusa», per quanto sarcasticamente, e non solo per i meriti indubbiamente acquisiti come inquirente, al netto degli errori e delle forzature in cui egli cadde, e in cui permise che cadessero i suoi collaboratori di allora, è giusto che Borrelli abbia nei giorni scorsi ottenuto la massima onorificenza che potesse dargli il capo dello Stato: la Gran Croce al merito della Repubblica. Che i suoi più convinti estimatori, in verità, si aspettavano che gli fosse conferita, secondo la prassi, già dieci anni fa, quando egli andò in pensione da procuratore generale della Corte d'Appello, sempre a Milano. Ma l'allora guardasigilli leghista Roberto Castelli non ritenne opportuno proporla, forse non a torto, visto il modo un po' atipico e controverso con il quale Borrelli volle chiudere la sua carriera, inaugurando l'anno giudiziario con la raccomandazione a «resistere, resistere, resistere» a Silvio Berlusconi, pur non nominandolo. E sapendo bene che il Cavaliere era, oltre che un suo ormai ex imputato, peraltro non condannato, il presidente del Consiglio legittimamente in carica. A distanza, ripeto, di dieci anni il buon Giorgio Napolitano ha ritenuto «motu proprio», come si dice in gergo tec nico quando manca una proposta formale del governo, di rimediare. Ma non ha potuto sottrarsi neppure lui allo sconsolato riconoscimento di una perdurante questione morale nella pubblica amministrazione. Dove quanto più numerosi e forti sono i vincoli burocratici e politici, anche a dispetto delle liberalizzazioni e semplificazioni attivate dall'attuale governo tecnico, tanto più numerose sono le occasioni e tentazioni di corruzione. Forse pure a questo pensava ieri il capo dello Stato al Quirinale, a conclusione delle celebrazioni del centocinquantenario dell'unità d'Italia, chiedendo alla politica di ritrovare presto la sua «missione», nel senso anche di «garantire comportamenti trasparenti sul piano della moralità, nonché più alti livelli di qualità nelle rappresentanze istituzionali e di governo».

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