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Il rebus sulla sopravvivenza della politica italiana

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Nel 1970 apparve in Italia un saggio dal titolo intrigante: «Sopravviverà l'Unione Sovietica fino al 1984?». Lo aveva scritto, l'anno precedente in pochi mesi, un giovane dissidente e storico russo, Andrej Amalrik, allora poco più che trentenne, che aveva già conosciuto il dramma della deportazione in Siberia in base a un decreto contro i «parassiti sociali». Questo saggio, che gli avrebbe procurato una nuova condanna a tre anni di «lavoro correzionale duro», preconizzava la fine dell'Urss a seguito di una guerra cino-sovietica e dell'esplosione degli insanabili contrasti fra le nazionalità che componevano il mosaico etnico della Russia sovietica. La profezia di Amalrik - che in seguito sarebbe stato espulso dall'Urss ma che avrebbe assaporato per pochi anni la libertà del mondo occidentale perché sarebbe morto in un tragico incidente stradale alla fine del 1980 - si avverò con qualche anno di più rispetto alla data preconizzata e con modalità diverse da quelle indicate nel titolo del suo saggio. Ma si avverò. E rimase insuperata comunque l'analisi da lui compiuta della società sovietica dominata da un'oligarchia di burocrati, classe privilegiata solo preoccupata dell'autoconservazione. Il nome di Amalrik mi è tornato alla mente pensando alla situazione politica italiana, non perché vi sia una analogia tra l'Urss di allora e il Bel Paese di oggi a livello di istituzioni politiche e di libertà conculcate, ma perché, stabilite le debite differenze, è possibile cogliere la medesima atmosfera di incertezza e preoccupazioni sul futuro imminente del Paese. La domanda che dava il titolo al bel saggio di Amalrik potrebbe ben essere parafrasata in questo modo: sopravviverà la democrazia italiana fino al 2013? Chiediamocelo. Non è fuori luogo. La vita politica non esiste più. I leader di quelli che, una volta, erano i partiti si muovono come zombi allucinati o, nella migliore delle ipotesi, come pugili suonati. Il Parlamento non conta più nulla: le sue aule, i suoi saloni, i suoi corridoi sono diventati territorio dei passi perduti, nei quali non si ode una proposta politica e non si sviluppa un'idea. E, del resto, esso è ormai ridotto a organo di ratifica delle decisioni del governo tecnico. Il governo tecnico, già. Non ho mai avuto simpatia per un governo tecnico o dei tecnici. E i lettori lo sanno: ho più volte ricordato la diffidenza che nutrivano nei confronti dei tecnici alla guida delle sorti di un Paese grandi liberali come Benedetto Croce e Luigi Einaudi. La loro ostilità si fondava su solide argomentazioni teoriche. Ed era più che logico che fosse così. A ben guardare, in fondo, che cos'altro è un governo tecnico se non un governo oligarchico - il governo dell'oligarchia tecnocratica - e, per ciò stesso, un governo non liberale? Dai tecnici, veri o presunti, è sempre bene guardarsi. Un grande e celebre scrittore e regista francese, Marcel Pagnol, nel suo sulfureo «Critique des critiques», ha invitato a diffidare, in generale, dei tecnici: «cominciano con la macchina da cucire e finiscono con la bomba atomica». Sarà, pure, una battuta, un calembour, ma qualcosa di preoccupante, e di vero, forse c'è. Il governo Monti è un governo tecnico, con le caratteristiche di un governo di unità nazionale, frutto di una situazione di emergenza italiana e internazionale, messo in piedi, checché se ne dica, con il ricorso a procedure istituzionali abbastanza disinvolte. È, piaccia o non piaccia l'espressione, un governo di «sospensione della democrazia», se non per altro almeno per il fatto che la sua stessa esistenza altera il delicato equilibrio di pesi e contrappesi istituzionali che dovrebbe garantire la vita di una democrazia liberale. Si dirà: la situazione è così grave che dobbiamo tenercelo. Sia pure, ma non diciamo, per carità!, che è un governo liberale, un governo in grado di fare riforme e liberalizzazioni. Questa può essere stata l'illusione di un momento. Ma i fatti l'hanno smentita subito. Tasse su tasse e decreti su decreti. Quali sono e dove stanno le liberalizzazioni? Sono forse liberalizzazioni l'aumento del numero dei taxi disciplinato da una nuova authority? Sono forse liberalizzazioni le aperture domenicali dei panifici o la falsa (e mezza) abolizione del valore legale delle lauree? Tutte, ricordiamolo per inciso, decise per decreto.È un governo dirigista, che moltiplica le norme, che prende decisioni al di fuori del Parlamento, dove non si discute più, dove non si agitano idee, dove si vota soltanto. E si ratifica ciò che al di fuori di esso si è ritenuto di dover fare. È il governo della tecnocrazia. L'illusione tecnocratica è antica e vanta un Pantheon di utopisti che vanno da Platone a Bacone a Saint-Simon e chi più ne ha più ne metta, tutti convinti che sia possibile creare a tavolino società ideali e perfette regolate per legge. Nei tempi moderni, poi, questa utopia si è trasformata in vera e propria ideologia tecnocratica, giustificata e supportata dalla crescente complessità delle società contemporanee. Tecnici e tecnoburocrati hanno preso il posto, almeno nelle trattazioni teoriche, dei politici come possibili gestori del potere. Un grande sociologo russo naturalizzato francese, Georges Gurvitch, osservò che il potere incontrollato assunto in Occidente dai gruppi tecnico-burocratici negli anni trenta spingeva verso il fascismo e pose così il problema della compatibilità fra tecnocrazia e democrazia. Per lui, anzi, la tecnocrazia finiva per diventare, di fatto, una minaccia per la democrazia. E, potremmo aggiungere, per una società liberale. Non nascondiamocelo. Per chi crede nelle società aperte, nella democrazia liberale classica fondata, come diceva Joseph A. Schumpeter, sulla libera concorrenza per un voto libero, i governi tecnici sono pericolosi, indipendentemente dalle persone che li guidano e dalle loro buone intenzioni. Ma, d'altro canto, non dimentichiamolo, le strade che portano alla dannazione sono lastricate di buone intenzioni.E allora, di fronte alla raffica di decreti del governo Monti, sorge davvero, spontanea, la domanda sul futuro di un Paese nel quale la politica si è ritirata a leccarsi le ferite. Si dice e si ripete: il governo tecnico, essendo un governo di emergenza, è anche un governo di transizione. Già, ma di transizione verso dove? Quando, nella primavera, o giù di lì, del 2013 ci saranno le elezioni, la politica sarà in grado di uscire dall'attuale stato confusionale e di minorità per riprendere davvero il suo posto? O non ci sarà il rischio, magari, che quella consultazione elettorale possa vedere gareggiare un qualche «listone» pigliatutto composto di tecnoburocrati e politici in grado di affossare gli ultimi sussulti della politica? Della politica vera, e quindi anche dello spirito democratico e liberale? Ecco perché, riflettendo sull'oggi, torna in mente Amalrik e la sua profezia ul futuro dell'Urss diventa un angoscioso interrogativo sul futuro del nostro Paese: sopravviverà la democrazia italiana fino al 2013?  

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