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Le relazioni del governo dei tecnici

Il ministro del Welfare Elsa Fornero e il premier Mario Monti (di spalle illeader della Cgil Susanna Camusso e della Cisl Raffaele Bonanni) durante il giro di tavolo dell'incontro tra Governo e parti

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Continuiamo la nostra analisi sulla fase di transizione aperta con il governo Monti. Si è molto scritto e parlato della politica, del suo passo indietro di fronte alla tecnocrazia. Ma non si considera un altro tema che nel Palazzo è vitale: le relazioni istituzionali ed economiche, quell'insieme di attività che si definiscono Public Affairs e fanno emergere i legittimi interessi dei gruppi sociali e d'impresa. La prima svolta impressa dal governo dei tecnici riguarda la «concertazione». Monti si è incaricato di chiudere quell'era depotenziando sindacati e associazioni imprenditoriali che in Italia hanno di fatto co-governato i processi economici. Cgil e Confindustria non sono quasi mai stati poteri confliggenti, ma nella maggior parte dei casi convergenti. Quell'epoca s'è chiusa anche grazie alla trasformazione della Fiat che Sergio Marchionne ha portato fuori dall'orbita di viale dell'Astronomia. Al resto ha contribuito la crisi di un sindacato che ha la maggioranza degli iscritti tra i pensionati e non tra i lavoratori attivi e registra ancora un forte gap culturale. Il flop dello sciopero di ieri ne è la dimostrazione. L'altro punto dell'azione di governo riguarda i rapporti con le imprese, le istituzioni economiche e le società partecipate dallo Stato. Il governo dei tecnici ha fatto saltare i riferimenti tradizionali delle lobby. I politici contano poco, i partiti sono destrutturati e il governo stesso - non avendo al suo interno figure con un curriculum politico di lungo corso - è un interlocutore «anomalo» con automatismi da inventare e una tela da tessere dentro e fuori dal Parlamento. La business community vive un senso di liberazione (dagli ingranaggi obsoleti della politica) ma quando si tratta di operare sul mercato delle relazioni diventa preda dello smarrimento perché sono saltati i punti di contatto di un mondo che aveva link forti e collaudati tra il Palazzo e l'impresa. La vera domanda che impera oggi nei consigli d'amministrazione delle grandi e medie aziende e delle associazioni più strutturate è: «Con chi dobbiamo parlare? Qual è il nostro vero interlocutore nel governo?». Pensate a società come Eni, Finmeccanica, Enel e tante altre che ruotano nella galassia dell'azionista pubblico. Sono società quotate, autonome, rispondono al mercato in nome degli azionisti privati, ma sono anche un braccio operativo nella politica estera e nazionale. Avevano una consolidata rete di relazioni che nei partiti trovava il suo campo da gioco. Improvvisamente, quel sistema è imploso. Al suo posto cosa c'è? Le macerie della politica e un altro sistema di relazioni frutto del riflesso pavloviano di un esecutivo di estrazione tecnica portato dallo «stato d'eccezione» a sviluppare relazioni con il proprio ambiente naturale: alta finanza e studi legali, questi ultimi non sempre di elevato standing. Sono venuti meno i corpi intermedi - da tempo in crisi di rappresentanza - che mediavano tra governo e società: i partiti, i sindacati, gli industriali. In un Paese dove l'indispensabile lavoro di lobby non è regolato da alcuna norma, sarebbe ora di cogliere questa opportunità aperta dalla transizione e colmare il vuoto con una legge sul lobbismo che ci porti in Occidente e ci faccia uscire dal suk.  

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