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Il Quirinale inascoltato

Il direttore del Riformista, Emanuele Macaluso, con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

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L'ex senatore e dirigente comunista Emanuele Macaluso, legato da una vita all'amico ed ex compagno di partito Giorgio Napolitano, non avrà certamente condiviso la lettera con la quale Silvio Berlusconi ha spiegato le ragioni del rifiuto di "mollare" di fronte all'ennesima offensiva giudiziaria, politica e mediatica. Ma altrettanto certamente non ne sarà rimasto sorpreso, avendo pure lui protestato ieri come più chiaramente e vigorosamente non si poteva contro lo scempio che "anche" i magistrati fanno degli "equilibri istituzionali". E dei "richiami" del presidente della Repubblica. Di cui, in particolare, Macaluso ha ricordato in un apprezzabile editoriale del suo giornale - il Riformista- gli appelli contro l'uso distorto delle intercettazioni e le "esternazioni di procuratori chiacchieroni". È "intollerabile", secondo Macaluso, la furbesca "retorica" di usare gli interventi del capo dello Stato, come fanno i politici ma anche i magistrati, "solo per questioni che riguardano altri, e non se stessi". Fra i politici egli ha messo in testa naturalmente il presidente del Consiglio per i suoi continui e "devastanti" attacchi alle toghe, senza distinzioni. Fra i magistrati, Macaluso ha citato, in particolare, il presidente della loro potente associazione e il capo della Procura di Napoli. Al primo, Luca Palamara, egli ha contestato di ignorare "le responsabilità di chi deve custodire le intercettazioni" negli uffici giudiziari e non lo fa. Al secondo, Giandomenico Lepore, ha contestato l'esibizionismo da quando cerca di interrogare anche con le cattive il presidente del Consiglio in un procedimento che lo vede parte lesa come ricattato. Ma dove il Cavaliere, che avverte "il trappolone", potrebbe ritrovarsi indagato pure lui. Il fatto che il governo sia "screditato" e ne "occorra un altro", ha scritto Macaluso, dal quale certamente non si possono attendere sconti politici a Berlusconi, "non può essere un alibi per nessuno" per sottrarsi al "dovere" di ristabilire un equilibrio istituzionale che non c'è più. Non può esserlo neppure per la magistratura, che in questo campo ha anch'essa i suoi obblighi. E deve decidersi a rispettarli. "Oggi, non domani", ha avvertito Macaluso. Senza la pretesa, e neppure l'intenzione, di tirare la giacca a lui e al capo dello Stato, di cui egli riflette spesso pensieri, umori, preoccupazioni e quant'altro può procurargli una situazione critica come quella che attraversa il Paese, è augurabile che la sortita di Macaluso non venga liquidata come lo sfogo estemporaneo di un vecchio e deluso dirigente politico. E apra invece gli occhi a tanti suoi ex compagni di partito che dall'opposizione si mostrano interessati più ad aumentare la confusione che a diradarla, più ad esasperare gli animi che a placarli, nella illusione di potersi finalmente liberare del loro più odiato avversario di turno. Che è naturalmente Berlusconi, come lo era vent'anni fa Bettino Craxi. Delle cui debolezze ed errori, in materia per esempio di finanziamento illegale della politica, per quanto fosse una pratica generalizzata, proseguita anche dopo di lui pure a sinistra, come dimostrano le attuali vicende giudiziarie di Filippo Penati, l'ex braccio destro del segretario del Pd Pier Luigi Bersani; delle cui debolezze ed errori, dicevo parlando di Craxi, la sinistra volle che si facesse un uso giudiziario distorto per toglierselo dai piedi. Paradossalmente, fra le macerie di un comunismo che egli aveva avuto il torto di combattere.

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