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L'ombra di Bucharin sul prode Filippo

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Ancorpiù vivo e sincero è tuttavia il piacere – di perfido gusto ideologico – che può procurarci il sospetto che lo stesso dottor Penati, in alcuni degli aspetti più appetitosi della piccola bufera politico-giudiziaria che si è abbattuta sulla sua persona, possa giungere alla fine a riconoscere gli ultimi incerti bagliori del grandioso stile etico-politico che in altri tempi distinse il partito dei suoi padri. Non tanto quello al quale egli si iscrisse ventenne, presumibilmente affascinato dalla «questione morale» lanciata negli anni Settanta da Enrico Berlinguer. Né quel gran partito togliattiano di cui egli, essendo ancora fanciullo quando il suo creatore morì, non poté assaggiare nemmeno gli ultimi avanzi. Bensì proprio il glorioso Pcb dell'Urss, che per le celebri imprese con cui si distinse nell'èra staliniana sul fronte della giustizia, non potrà non sembrargli il legittimo antenato del mite e gentile partito che oggi, col fare bonario del suo vecchio amico Bersani, gli procura pene e dolori non troppo diversi da quelli che Baffone arrecò a tanti suoi vecchi compagni. Il più toccante dei particolari che potrebbero indurre Penati a paragonare il suo caso ai famosi psico-drammi del tempo delle grandi purghe staliniane è naturalmente la richiesta, formulata ufficialmente da un suo illustre compagno, Luigi Berlinguer, che nel Pd si proceda senza indugi alla sua espulsione. Ma non meno ammirevole è la prontezza con cui lo stesso Penati, dopo aver affermato la sua «totale estraneità» ai fatti che gli sono stati addebitati, ha deciso di autosospendersi dal partito adducendo una motivazione che esprime quella suprema virtù politica e morale che fu un tempo chiamata «patriottismo di partito». Mi autosospendo, ha dichiarato Penati, «per scindere nettamente la mia vicenda personale dalle questioni politiche», e soprattutto «per non creare problemi e imbarazzi al Partito»: parole delle quali è impossibile che gli siano sfuggite, mentre le concepiva, da un lato la profonda somiglianza con quelle con cui tanti antichi comunisti accusati e processati sotto Stalin di tradimento tentarono invano di farla franca, e dall'altro la ancor più profonda differenza da quelle con cui i più temerari di quegli imputati, pur essendo del tutto innocenti delle infamie attribuite loro, sempre nell'interesse del partito giunsero a dichiararsene colpevoli. Certamente il dottor Penati non ignora che il più celebre di quei casi fu il processo che nel '38 si concluse a Mosca con la condanna a morte del compagno Nikolaj Bucharin, che prima del verdetto, com'è noto, in una struggente lettera a Stalin, dopo aver dichiarato ancora una volta la propria innocenza, si disse comunque pronto, se ciò poteva giovare al partito, a rendergli l'ultimo estremo servigio di confessarsi reo di tradimento. Ovviamente sulla testa di Penati non incombe nessuna condanna a morte o al gulag. E tuttavia non sarebbe giusto contestargli il diritto di percepire, in certi risvolti partitici di questo suo prosaico infortunio giudiziario, nonostante le sue tinte alquanto meno fosche, l'inconfondibile aroma dell'antico epos bolscevico.

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