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Irene

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Direttodal grande John Ford e interpretato da alcuni leggendari attori di allora. (Raymond Massey, Thomas Mitchell, Mary Astor, John Carradine, John Hall e una meravigliosa Dorothy Lamour), il film descriveva con grande efficacia gli effetti di un furioso tornado in un'isola del Pacifico. Ma quella tempesta non aveva semplicemente lo scopo di stupire e spaventare il pubblico. Aveva soprattutto la funzione di favorire la felice soluzione di una storia d'amore contrastata dai pregiudizi razziali del tempo. Del lieto ottimismo con cui in quel film erano rappresentati gli effetti di un micidiale uragano si direbbe che oggi, negli Usa, non sopravvia nemmeno il più lieve profumo. Non è comunque escluso che fra poche ore gli americani, e in particolare i newyorkesi, e con tutti loro anche l'immenso pubblico planetario che sta partecipando al dramma di Elvira davanti ai teleschermi, si vedranno costretti ad ammettere che un pochettino più terrificante degli effetti reali di questo uragano sia l'ondata di madornale allarmismo che ha provocato. D'accordo, coi tifoni non si scherza. Ma non si dovrebbe scherzare nemmeno coi fifoni, che ormai, un po' dappertutto nel mondo, sembra che non sappiano più fare altro che temere catastrofi e sconquassi. Desta fra l'altro non poco stupore che la centrale di questa industria mondiale della paura, la grande erogatrice di allarmi e terrori collettivi, il paese che eccelle più di tutti gli altri nella pratica di gonfiare e ingigantire a dismisura ogni motivo di strizza per trovarvi di che fomentare ogni volta terrori cosmici, sia proprio quella antica fabbrica di ottimismo che era una volta l'America. Il luogo che era un tempo, per definizione, la nazione della speranza si è infatti trasformato in una immensa scuola di uccellacci del malaugurio. Chi l'avrà mai ridotta in questo stato? La parola agli esperti del ramo Tramonto dell'Occidente. Che non mancheranno di spiegare il fenomeno adducendo un gran numero di complesse cause politiche, sociali, economiche, psicologiche, ideologiche e simili. Chi invece può affidarsi soltanto al comune senso del pudore culturale, non esiterà a riconoscere che a trasformare l'America in una annunciatrice di tragedie spesso, se non proprio immaginarie, manifestamente esagerate, è stata la deprimente visione del mondo generata dalla sua cultura “liberal”. Questa visione, come hanno ormai capito anche i piccini, è una minestrina a base di inane buonismo, relativismo morale e religioso, masochismo multiculturale, puerili miraggi ecologici, disprezzo per l'Occidente, assurdi sensi di colpa per la sua storia e ostilità preventiva verso ogni suo eventuale successo futuro. Ma a questi elementi già noti, la tendenza a vedere in ogni cataclisma naturale l'indizio di una possibile apocalisse impone di aggiungerne un altro: la paradossale miscela di paura e di speranza con cui le nostre Cassandre guardano al nostro futuro. Tanta insomma è la prontezza con cui a ogni minima scossa della società o della natura ci si sbraccia ad annunciare rovine epocali che spunta con prepotenza il sospetto che questa vocazione al vaticinio catastrofale possa nascere non tanto dal timore, o non soltanto da esso, ma anche e forse soprattutto dal desiderio che tutto finalmente venga spazzato via da un colossale tornado. Temere e sperare la propria fine: sarebbe dunque questa l'ultima grande passione dell'Occidente?

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