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segue dalla prima di GINO AGNESE In febbraio, invece, i gruppi ribelli ebbero il pronto sostegno di Sarkozy, che immediatamente inviò i suoi bombardieri a fermare i blindati del Colonnello, i quali in breve l'avrebbero avuto vinta.

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Edera vero. Presto si seppe che i capi degl'insorti avevano allacciato contatti a Parigi, e che il governo francese già da tempo aveva assicurato ogni copertura. Eppure gl'interessi francesi in Libia non erano rilevanti, né la presenza storico-culturale è assai profonda. (L'interscambio collocava la Francia al sesto posto, pochi libici parlano il francese, la bibliografia sulla Libia è specialmente italiana, inglese,tedesca). Nel giro di pochi giorni, quando ancora Gheddafi sembrava ben in arcione e non ancora si era profilato un intervento NATO, il Comitato bengasino di Jibril, di Jalil e compagni fu riconosciuto come legittimo governo oltre che dalla Francia - la più sollecita - anche dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, e in sequenza da tutti i paesi dell'Alleanza atlantica. Risultò evidente, quando il destino dell'insurrezione era ancora molto incerto, che i francesi, gl'inglesi e gli americani avevano deciso di abbattere il tiranno Gheddafi: quello stesso Gheddafi che nell'arco di quattro decenni avevano sempre accettato, intrattenendo con il suo dispotico regime normali rapporti diplomatici (sebbene con qualche intervallo, per esempio nei frangenti del bombing su Tripoli e Bengasi ordinato da Reagan nel 1988). E allora, perché si convenne, tra la fine dell'anno scorso e gl'inizi di quest'anno, di togliere Gheddafi dalla scena del nord Africa incoraggiando, armando, spianando la strada a una rivolta? Certo, si può supporre che la spinta sia venuta da ragioni umanitarie, benché altre mattanze, qui e là nel pianeta, non fanno batter ciglio. O ben si può credere che lo scopo sia stato quello, nobilissimo, di radicare la democrazia in Libia. Se no, a voler essere originali, si può finanche evocare la «teoria delle catastrofi» del compianto matematico Thom, per cui a un certo punto ogni cosa va in crisi e finisce: così pure il «raiss» col suo regime. Ma c'è anche dell'altro a configurare un movente che ha comportato, in questo difficile momento economico, spese colossali: e basti ricordare soltanto i costi dei «raids» missilistici. C'è che il Colonnello, da un annetto e passa, stava progressivamente piegando le sue politiche, in primis quella energetica, in direzioni che marcavano una crescente freddezza verso la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. E per contro segnavano una fervida vicinanza con la Russia e con l'Italia (tra loro legate dall'intensa cordialità Putin-Berlusconi); nonché segnalavano una progressiva collaborazione con la Cina e con l'India. Più avanti, in epilogo, si evidenzierà come questa deriva sia stata fatale a Gheddafi. Ma intanto, come nei romanzi, sarà utile fare un passo indietro. Per dare spazio a un prologo con qualche quadretto del tempo in cui Gheddafi era sconosciuto, molto magro e di anni ventisette. Il prologo Il prologo si colora di esperienze personali. Giovane, viaggiai abbastanza nella Libia di re Idris, che come capo dell'islamica confraternita della Senussìa era anche un po' il papa, oltre che il sovrano, della immensa regione costituita da tre realtà del tutto differenti sotto ogni profilo. La Cirenaica delle cabile più fiere, del gebel, dei giardini, del mare spumeggiante, delle memorie pietrose di sei secoli prima di Cristo. Il desertico Fezzan delle oasi, incuneato verso il cuore dell'Africa. La Tripolitania dei mercanti tripolini, la regione di Leptis Magna e di Sabratha, ma anche di Misurata. La Libia di Idris, ottuagenario e di poca salute sul finire degli anni Sessanta, era una monarchia formalmente costituzionale, perché così la vollero gl'inglesi dopo la fine della guerra e del periodo coloniale italiano. United Kingdom of Libya. In questa espressione ufficiale si nascondeva il timore che quell'unità potesse andare in pezzi. Per acquietare le sue genti cirenaiche, soprattutto i bengasini gelosi di Tripoli capitale, il re elesse a tale ruolo una cittadina, Beida, in Cirenaica. Ma nulla cambiò. Il suo regno era un pacioso emirato. Una sterminata, opulenta abbazia in cui nulla sfugge ai temibili frati guardiani, che però il più delle volte chiudono un occhio. Immensa e nel suo insieme ben poco popolata, la Libia degli anni Sessanta si arricchiva dei proventi del petrolio. Il re si dannava invece che non si trovasse l'acqua. A forza di estrazioni, un giorno il petrolio sarebbe finito, e allora senz'acqua a sufficienza sarebbe finita anche la Libia. Tripoli e Bengasi erano teatri di affari vertiginosi, in un vortice di mediazioni. Si diventava primo ministro per chiamata diretta, e generalmente per periodi brevi. Non ne parliamo dei ministri. L'ora d'un appuntamento era sempre vaga. Gli autisti delle «Mercedes» governative, nelle lunghe attese, discutevano di orologi, ognuno slacciandosi dal polso il proprio e vantandone la marca, e intanto baluginava l'oro dei bracciali. Idris, in adempimento coranico, discretamente apriva ai palestinesi i cordoni della borsa, ma non era un paese, la Libia, che potesse accogliere la disperazione dell'estremismo islamico. (Benché Al Fatah, come si seppe in seguito, avesse cominciato ad agganciare studenti tripolini a Roma e a Parigi). In un paese di tanta abbondanza, e così stabilmente osservato dai «servizi» di mezzo mondo, non poteva esser messa in conto la sorpresa di un colpo di mano. Ma venne il 1969, e in un pomeriggio dei primi di settembre la telefonata di un collega della redazione Esteri de «Il Tempo» mi raggiunse a casa: «Vieni subito al giornale. Sta succedendo qualcosa di grosso in Libia. Però non è chiaro che cosa». Arrivai di corsa e andai dritto nel box degli Esteri. Dalle informazioni disponibili, frammentarie e contraddittorie, davvero non si capiva granché. Sembrò che le forze armate avessero represso una rivolta. Poi il quadro delle notizie, pur restando opaco e lacunoso, cominciò a svelarci l'essenziale. Profittando dell'assenza del vecchio re, che soggiornava in Turchia per delle cure termali (la Turchia che aveva tenuto in protettorato la Libia fino al 1911, quando gliel'avevano presa gl'italiani) i militari s'erano impadroniti del potere senza incontrare resistenza. I militari? «Sì, giovani militari. Tenenti e capitani». E come mai la potente polizia era rimasta alla finestra? Siccome avevo scritto molto della Libia - persino una piccola storia in brochure della confraternita di Idris, «La Senussìa in Africa» - e avevo là svariate conoscenze, il direttore Renato Angiolillo volle che fossi io l'inviato de «Il Tempo» a Tripoli. Chiusi aeroporti e porti, vi giunsi via terra provenendo dalla Tunisia, assieme ad altri giornalisti italiani e stranieri. (Mi piace ricordare Gaetano Scardocchia e Giorgio Fattori). Era stata subito proclamata la Repubblica Araba Libica, tutti i poteri erano stati assunti da un Consiglio della Rivoluzione. «Nasseriani», si diceva. Dal calar delle tenebre, coprifuoco e spari. Ma di giorno, nelle strade, euforia da liberazione. Era in corso la caccia ai favoriti del regime rovesciato. Chiesi che fine avesse fatto il ministro El Houni, che avevo conosciuto. «Fuggito, e vestito da donna. Vergogna!». Cercai un mio amico, un sottosegretario, che portava al re così tanta devozione da accennare a un inchino o all'atto di alzarsi ogni volta che lo nominava. «Il re? Anche lui, anche lui. Lui era il primo farabutto». Il giovane Gheddafi Il tenente colonnello Gheddafi, non si espose. Era nato nel Quarantadue, un numero che segnerà il suo omega. Aveva imparato certe scaltrezze da guerra rivoluzionaria negli anni d'Accademia militare, qui in Italia. Tenne coperti il suo nome e il suo ruolo per due o tre settimane. Si conobbero in quel frattempo soltanto i nomi d'un paio di ufficiali portavoce, molto giovani. La rivoluzione non esprimeva un capo, tutto promanava in modo impersonale. In Europa era ancora il Sessantotto, che aveva molto innalzato il mito del collettivo: sicché quell'acefalia tripolina valse a spuntare le lance di buona parte della stampa. Si voleva credere, a dispetto di ogni esperienza, che davvero il Consiglio della Rivoluzione avrebbe rispettato gli stranieri onorato gli accordi commerciali, immesso la Libia nella modernità. Ma poi Gheddafi, venuto allo scoperto, nell'ottobre 1970 cacciò via ventimila residenti italiani e ne confiscò i beni. Sulla scena interna e internazionale, il Colonnello si presentò come una guida, nel significato più alto e meno operativo del termine. I governanti occidentali non tardarono a considerarlo un visionario, forse pericoloso. Ma d'altra parte si sa: gli affari sono affari, il petrolio e il gas sono necessità primarie. Il «rais», come presero poi a chiamarlo, mostrò subito un'eloquenza iperbolica e una tendenza espansiva. Annunciò che la Repubblica Araba di Libia avrebbe cercato l'unione con altre nazioni del nord Africa. La confinante Tunisia si defilò, Bourghiba la sapeva lunga. Mentre ad est l'Egitto fu convergente sul progetto d'una Repubblica Araba Unita, che però ebbe effimera durata. Quanto al suo tripartito paese, Gheddafi disse, in seguito, che ne avrebbe fatto una «jamairija», una realtà politica del tutto orizzontale, una sorta di «democrazia diffusa», nella quale tutto e il contrario di tutto poteva esser messo continuamente in discussione. Tranne, naturalmente, ciò che veniva disposto dal Consiglio della Rivoluzione, ovvero da lui e dai suoi più immediati collaboratori, primo tra i quali per oltre vent'anni si distinse il maggiore Abdel Salam Jalloud, caduto poi in disgrazia negli anni Novanta e attualmente in cerca di sostegni, tra Italia e Quatar, che lo facciano salire sul carro dei ribelli. (Ammesso che lo vogliano, ingombrante com'è). In quarantadue anni di potere assoluto Gheddafi e i suoi accoliti hanno potuto insultare e minacciare paesi, personalità, istituzioni: e impunemente, perché tutti abbassarono la testa per non compromettere gli approvvigionamenti petroliferi e il resto dei rapporti commerciali. La Gran Bretagna, prima di avvedersi che la Libia le avrebbe preferito altri partner, restituì al «rais» colui che era stato tra i responsabili del tragico «attentato di Lockerbie» all'aereo Pan American: e il «patriota» fu accolto a Tripoli da vibranti festeggiamenti. L'Italia è stata nel mirino delle contumelie (e talora forse anche in altri mirini) come nessun altro paese. Quante volte è stato chiuso a caro prezzo il capitolo dei risarcimenti «coloniali» che poi il Colonnello ha riaperto? Di più: si dice che lo salvammo in due occasioni. La prima negli anni Settanta, informandolo che gente della sua cerchia si preparava a rovesciarlo (e al riguardo circolò poi un romanzo). La seconda nel 1986, quando qualcuno - si fa il nome di Craxi, ma non ci sono prove - pare l'abbia preavvertito giusto in tempo del bombing di Reagan, al quale scampò per poco. (Quel presidente volle vendicare la morte di un gruppo di soldati americani dilaniati a Berlino da un'esplosione attribuita ad agenti libici). Sotto Gheddafi sono cresciute due generazioni. C'è stato tutto il tempo, e i mezzi, per «diserbare» ogni ambiente, ogni territorio nel quale avrebbero potuto allignare alternative. Furono raggiunti compromessi con le cabile più indocili. Il conto con i più irriducibili esponenti del regno senussita attivi all'estero fu saldato da sicari, al Cairo e altrove. Nessuno sa quante migliaia di libici, sospettati di ostilità a Gheddafi, siano stati avviati alle carceri o al patibolo dopo processi-farsa o addirittura senza processo. Forse qualcosa ne sa l'ex ministro della Giustizia Jalil, ora esponente del Comitato che guida l'insurrezione. Ma, per dire di episodi di rivolta paragonabili a quelli che prontamente hanno richiamato i bombardieri di Sakorzy, tutti ricordano come Gheddafi anche in passato non si fece scrupolo di disperdere a fucilate la folla manifestante a Bengasi: per esempio nel 2009, quando una protesta si accese, e chissà quanto sarebbe divampata, prendendo l'occasione delle provocatorie T-shirt di Calderoli. L'epilogo E dunque l'epilogo, la fine di Gheddafi. In febbraio, quando la ribellione era appena cominciata e gl'insorti sembravano pochi e male in arnese. Neppure il politologo americano Luttwak, intervistato da una televisione italiana, se la sentì di negare il pronostico a Gheddafi. Ma Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti furono decisi a cogliere il risultato e cominciarono, nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, a chiedere che la Libia fosse dichiarata «no fly zone», di modo che l'aviazione del Colonnello, a terra, potesse essere fatta a pezzi. La Russia, per bocca del suo rappresentante Ciurkin, si disse nettamente contraria, ma calcolando che non l'avrebbe spuntata si astenne. Si astennero anche la Cina e l'India. Gli ambasciatori nel Palazzo di vetro non fecero fatica a capire che in Libia il vento sarebbe cambiato. Furente il Colonnello scoprì allora le sue carte, che da tempo erano state già «viste» a Parigi, a Londra, a Washington. E invitò i russi, i cinesi e gl'indiani a farla da padroni col petrolio libico, poiché egli avrebbe scalzato le compagnie occidentali. Quella che era stata un'opzione politica, una scelta di campo progressivamente perseguita, esplodeva in delirio: e l'invito cadde, naturalmente. Prima di essere sconfitto, Gheddafi è durato sei mesi, in uno scenario di rovine. La Russia, persa l'occasione di poter attraccare la sua barca alla più lunga sponda del Mediterraneo, non gli ha voltato la faccia, fino all'ultimo. Oltre l'andirivieni dei diplomatici incaricati di offrirgli asilo, persino un famoso campione volò a Tripoli per dare a Gheddafi la soddisfazione di vincerne almeno una di partita: sulla scacchiera.

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