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La diabolica analogia con Craxi

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Il leader del Psi Bettino Craxi

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Per quanto sgradevoli possano comprensibilmente apparire a Silvio Berlusconi, le analogie fra i referendum appena celebrati e quello del 1991 sulla preferenza unica, nel quale inciampò Bettino Craxi, sono diventate troppe e troppo evidenti per essere negate. Peraltro, esse non si limitano ai referendum in sé, ma riguardano anche, o ancora di più, il contesto politico e i possibili effetti. Cominciamo proprio dal contesto. Vent'anni fa Craxi si lasciò scappare l'occasione delle elezioni anticipate, che gli avrebbero permesso di dare forse il colpo di grazia politico al Pci, reduce da un sofferto e imbarazzante cambio di nome e di simbolo impostogli dal crollo del comunismo. Fu un errore, com'è stato probabilmente quello commesso da Berlusconi nei mesi scorsi, quando avrebbe fatto forse meglio ad investire appunto nelle elezioni anticipate la debacle del suo ormai ex alleato Gianfranco Fini. Che si era unito ai vari Bersani, Di Pietro e Casini nel tentativo di rovesciarlo in Parlamento. Le elezioni anticipate avrebbero permesso a Craxi anche di disinnescare con un rinvio la trappola del referendum contro le preferenze plurime, così come a Berlusconi la trappola dei tre referendum di questa tarda primavera. Le stesse elezioni amministrative di maggio si sarebbero svolte in un quadro assai diverso. Eppure il carattere politicamente e mediaticamente pericoloso di questi referendum, sui quali Antonio Di Pietro non a caso aveva messo il cappello, era stato ben avvertito dal presidente del Consiglio. Che ne aveva fissata la data il più lontano possibile, nell'ultima domenica utile della finestra referendaria fissata dalla legge, per scoraggiare l'affluenza alle urne sulla soglia dell'estate. Anche nel 1991 si votò verso metà giugno: il 9 e 10. La trappola nel caso di Berlusconi era diventata ancora più grossa ed evidente dopo l'incidente di Fukushima, che aveva caricato di ulteriore paura la prova referendaria contro il nucleare interessando ancora di più gli elettori e spingendoli ai seggi. Dove avrebbero trovato anche le schede dei due referendum sull'acqua e di quello sul legittimo e temporaneo impedimento processuale del presidente del Consiglio e dei ministri. Pur consapevole di tutto questo, il Cavaliere ha imprudentemente pensato di saltare l'ostacolo con un atteggiamento di contraddittoria e discontinua indifferenza. Che fu adottato vent'anni fa anche da Craxi. Il quale non si rese conto che il referendum contro le preferenze plurime, e a favore della preferenza unica, era un treno su cui era stata caricata tant'altra merce ad altissimo rischio, come l'insofferenza per una classe politica considerata inamovibile e per un sistema immobile, con la conseguente volontà di cambiare cose e uomini. Come Craxi nel 1991, così Berlusconi vent'anni dopo ha snobbato i referendum definendoli «inutili», ha evitato di difendere le leggi contestate dai referendari, pur avendole fatte approvare lui in Parlamento, diversamente dalle preferenze plurime in vigore sin da quando Craxi portava ancora i calzoni corti, o quasi. E, snobbandoli, il Cavaliere ha anche strizzato l'occhio all'astensionismo, sollecitato da Craxi con l'ormai tristemente famoso ma fuggevole invito ad andare al mare, convinto che sarebbe bastato a far mancare il cosiddetto quorum di partecipazione. Ricordo come fosse ieri lo scontro che dopo quell'invito ebbi con lui, che pure apprezzavo ed avevo convintamente sostenuto dal suo arrivo alla segreteria del Psi, nel 1976. Gli dissi che era un errore non intraprendere e chiedere agli alleati una grande e aperta campagna, non tra una battuta e l'altra con i giornalisti, per difendere, magari anche con l'assenteismo, i diritti degli elettori insultati dai referendari con la storia del commercio dei voti di preferenza. Io i miei non li avevo mai venduti. E chi lo avesse fatto, avrebbe continuato a vendersi anche l'unica preferenza lasciatagli dal referendum, o il semplice voto di lista. Lui mi rispose che, troppo preso dall'impegno della direzione de Il Giorno, non mi rendevo conto che di quel problema importava poco al pubblico. Rimasi allibito ancora di più la sera del 10 giugno, quando la vittoria dei referendari risultò travolgente e lui mi telefonò non per ravvedersi, ma per escludere che la situazione politica potesse ulteriormente complicarsi: un po' come stanno facendo adesso dalle parti del Cavaliere. Rispetto alla vicenda referendaria del 1991, quella appena conclusasi in questa declinante primavera ha purtroppo un segno ancora più negativo. Craxi era allora solo il segretario di un partito pur determinante di una coalizione di governo guidata da Giulio Andreotti. Invece Berlusconi è il presidente del Consiglio. Al quale francamente pochi hanno dato una mano, nel suo stesso partito, per ridurre gli errori o coprire le falle. Per quanto incerta e scarsamente motivata, la scelta del Cavaliere di disertare le urne referendarie è stata incredibilmente e gravemente smentita da esponenti anche autorevoli del Pdl, che sono non andati ma corsi alle urne per esibire le loro schede elettorali ai fotografi. Penso, per esempio, al sindaco di Roma Gianni Alemanno e alla «governatrice» della regione Lazio Renata Polverini. O al ministro della Difesa Ignazio La Russa, che ancora l'altra sera giocava con i giornalisti a fare l'incerto. Almeno con Craxi non ricordo francamente socialisti di qualche peso che avessero vent'anni fa aggravato i suoi errori smentendolo con pose ufficiali. Lo scollamento del Pdl è stato pari a quello della Lega, visto, per esempio, che mentre Umberto Bossi ha proclamato il suo rifiuto di votare, come fece ai tempi di Craxi, anche se a subirne i danni allora fu solo il leader socialista, il «governatore» leghista del Veneto Luca Zaia, sino all'anno scorso ministro dell'Agricoltura, ha ostentato i suoi quattro sì per essere in sintonia - ha detto - con la sua «gente». Le armate Brancaleone fanno tutte e sempre guai, di qualsiasi colore siano le loro camicie: rosse, azzurre o verdi.

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