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È sempre "piove governo ladro"

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Alle tante possibili spiegazioni politologiche o parapolitologiche del terremoto elettorale dell'ultimo fine settimana ne manca una  quella più semplice, ma, forse, proprio per la sua semplicità, la meno congeniale al bizantinismo intellettuale dei politici di professione e dei commentatori ad usum delphini del potere. Questo terremoto elettorale, insomma, può essere visto e interpretato, diciamolo subito, come un ritorno di quella antica, protestataria e anarchicheggiante, ma tradizionale, «vocazione antipolitica» del nostro paese: una vocazione che affonda le proprie radici lontano nel tempo ed è compendiata nella celebre battuta «Piove, governo ladro!». Intendiamoci. Non voglio dire che non abbiano elementi di verità le riflessioni di politici, politologi e osservatori sulla caduta del consenso a Berlusconi, sull'andamento dei flussi elettorali, sulla diminuzione di voti per il Pdl e per la Lega, ma anche sul fallimento del Pd e del terzo polo, oltre che, naturalmente, sulla condanna del disegno di coalizione alternativa al berlusconismo proposto da Massimo D'Alema. Mi limito, soltanto, a far osservare che tutte queste analisi prescindono dalla considerazione di un dato storico che riguarda il rapporto fra gli italiani e la politica e, più in generale, i politici. Questo rapporto lo colse molto bene un liberale cattolico di formazione cavourriana come Stefano Jacini quando, nel suo celebre saggio intitolato Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dopo il 1866, scrisse testualmente: «C'è un'Italia reale che non è l'Italia legale, e che tende anzi a ribellarsi a quest'ultima». E, pure, ben lo colse un vivace scrittore e uomo politico della pamphlet dal titolo «I moribondi di Palazzo Carignano» fornì un ritratto tutt'altro che lusinghiero del primo Parlamento italiano. Per non dire, ovviamente della ricca letteratura di critica feroce al parlamentarismo e alle sue degenerazioni fiorita in un'epoca, quella immediatamente post-unitaria, che paragonata ai nostri giorni appare quasi come un'età d'oro della politica. L'italica diffidenza nei confronti della politica e dei politici attraversa tutta lo storia dell'Italia unitaria. All'inizio degli anni venti, alla vigilia della marcia su Roma, Giuseppe Prezzolini, suggerì all'amico Piero Gobetti di creare una «congregazione degli apoti», cioè di coloro «che non la bevono», che non vogliono lasciarsi infinocchiare dalla politica. Secondo lo scrittore toscano i politici di qualunque colore erano sempre gli stessi: «Quello che gli uni fanno, gli altri magari lo rimproverano, ma lo farebbero se ne avessero la possibilità e segretamente lo invidiano, e se lo propongono per un'altra volta». Un'altra grande e significativa manifestazione di antipolitica si ebbe, dopo il fascismo, nella reazione al «nuovo fascismo» degli antifascisti coagulato attorno al progetto togliattiano di «democrazia progressiva» e attorno al modello di gestione oligarchica del potere rappresentato dai governi della cosiddetta «esarchia» costituiti dai sei partiti del Cln. La protesta del paese, la rivolta contro i politici e la politica trovò sbocco nelle idee di un commediografo con il monocolo, Guglielmo Giannini. E nacque, così, il movimento dell'Uomo qualunque attorno all'omonimo settimanale, che si rivolgeva all'uomo della strada, «stufo di tutti», sfruttato da un combriccola di avidi politicanti, torchiato dal fisco e desideroso che nessuno gli rompesse le scatole. Negli anni cinquanta, un professore fiorentino, antifascista e anticomunista, Corrado Tedeschi, già allievo di Luigi Einaudi e divenuto ricchissimo grazie alla passione per l'enigmistica, fondò il Partito della bistecca. Il programma era semplice: tutti i cittadini hanno diritto a una bistecca giornaliera di 450 grammi accompagnata da una razione di frutta, dolce e caffè perché tutti hanno diritto di vivere bene. Gli slogan, diffusi con manifesti murali e sulle fiancate di autopulman e rimorchi che giravano per il paese, erano altrettanto semplici e diretti: «La vita è una vitella», oppure: «Meglio una bistecca oggi che un impero domani». Quello dei «bistecchisti» fu un caso limite, che pochi ricordano e che sfiorava il ridicolo. Ma che il Paese avesse difficoltà a riconoscersi nelle istituzioni era un fatto. Che cosa poteva mai dire all'uomo della strada un sistema caratterizzato dalla cronica instabilità dei governi e da una classe politica che, per giustificare, la propria permanenza al potere, giocava con le parole inventando formule che esprimevano il contrario di quello che volevano dire o si proponevano di conciliare l'inconciliabile? Chi non ricorda, per esempio, l'espressione «governo amico» con la quale De Gasperi salutò sprezzantemente la formazione del governo Pella o quella «governo della minoranza precostituita» per il ministero Zoli? O, ancora, la formula «governo delle convergenze parallele» che servì a designare il monocolore Fanfani o quella «governo della non sfiducia» inventata per il monocolore Andreotti? Alla fine il sistema vivacchiò - mentre l'antipolitica si manifestava concretamente con una consistente crescita del fenomeno dell'astensionismo elettorale - ma resse solo fino a quando il contesto internazionale lo consentì. La caduta del muro di Berlino e la conclusione della guerra fredda contribuirono - è storia di ieri - ad accelerare l'agonia del sistema, a facilitarne il crollo. L'antipolitica apparve chiara anche nelle sigle delle nuove forze politiche, o anche delle vecchie che si trasformavano: Lega, Forza Italia, Alleanza Nazionale, Democratici di sinistra e via dicendo. Tutte sigle dalle scompariva il riferimento al concetto di partito. L'ingresso nell'agone politico di Silvio Berlusconi è spiegabile, in questo quadro, come un tentativo dell'antipolitica di riscoprire una reale vocazione e sostanza politica. In altre parole il successo di Berlusconi fu dovuto alla sua capacità di intercettare l'antipolitica, la protesta eterna del paese, e trasformala in politica, in proposizione del nuovo. È questo dato di fatto che, a mio parere, bisogna tenere presente per capire a fondo il senso di quello che è accaduto alle urne domenica e lunedì scorsi. Il voto non rappresenta la fine di Berlusconi. Tanto è vero che il vincitore reale della competizione è tutto quel mondo di contestazione estremista e radicale al sistema. Credo piuttosto che si tratti di un «avviso ai naviganti» per invitarli a correggere rotta, senza indulgere alle lusinghe dei giochini della politica, e a riprendere la strada della costruzione di una società nuova, autenticamente liberale.

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