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Silvio sottolinea un'anomalia italiana

Silvio Berlusconi

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Tutte le oche starnazzanti del giustizialismo nostrano avranno un buon motivo per agitarsi incomposte, fare chiasso e suscitare polveroni di indignazione di fronte alle ferme e impolitiche dichiarazioni di Silvio Berlusconi all'uscita dal tribunale di Milano dopo l'udienza del processo Mediaset. Il premier, infatti, ha detto, senza mezze parole, di avere trascorso una «mattinata surreale ai limiti dell'inverosimile» ed ha aggiunto che il suo interrogatorio è stato «una perdita di tempo paradossale con un dispendio di risorse che grida vendetta». Il linguaggio è duro, ma l'analisi è esatta. Come sempre, Berlusconi, piaccia o non piaccia, ha colto nel segno. Ha fatto bene, il Cavaliere, a presentarsi finalmente in tribunale e a sottolineare, al termine dell'udienza, il carattere surreale e paradossale di una situazione che vede il capo del governo costretto a mettere da parte l'agenda degli impegni, nazionali e internazionali, in un momento particolarmente difficile, come l'attuale, per rispondere alle accuse, più o meno fondate, che da un ventennio o giù di lì gli vengono mosse. Ha fatto bene, in tal modo, a sottolineare una anomalia tutta italiana. Altrove infatti – si pensi, per esempio, a quello che è accaduto in Israele o in Francia – le maggiori cariche istituzionali vengono sottoposte a processo per eventuali reati, e se del caso condannate, al termine del loro mandato. È una anomalia, lo ribadisco. È una anomalia che rivela il carattere imperfetto della nostra democrazia, la quale – dopo la bufera giudiziaria di Tangentopoli – è andata degenerando in un sistema oligarchico nel quale non esistono più né equilibrio né separazione dei poteri. E dove la magistratura, grazie all'eclissi della politica, ha finito per assumere, sempre di più, le connotazioni di una «casta» o, se si preferisce, di una «corporazione» incontrollata e incontrollabile, pronta a usare il «ricatto giudiziario» come un'arma nei confronti di chi rischia di metterne in crisi privilegi, poteri, rendite di posizione, attraverso la riforma di un sistema giudiziario unanimemente considerato inefficiente, non garantista, burocratizzato, inaffidabile e lento. Un sistema giudiziario, ancora, costruito sull'assurdo della confusione tra magistratura inquirente e magistratura giudicante e, nella sostanza, vessatorio perché il cittadino ingiustamente processato o condannato non può far valere il principio della responsabilità civile dei giudici. Non basta, c'è di più. Il carattere di «casta» o di «corporazione» della magistratura non lede soltanto gli interessi legittimi e i diritti dei singoli, ma collide con quello che si può definire «l'interesse nazionale». Ciò che accade in questi mesi e in questi giorni è sotto gli occhi di tutti. Il nostro Paese sta attraversando un periodo di emergenza, in gran parte riflesso di una grave situazione internazionale: minaccia di speculazioni economiche, ondate di immigrazione clandestina che rischiano di mettere in crisi precari o non consolidati equilibri socio-economici, tensioni fra l'Italia e altri paesi dell'Unione Europea – loro davvero sì – preoccupati del proprio egoistico «interesse nazionale», riaffiorare di antichi contrasti fra aree diverse del paese, emergere di pulsioni che esprimono la voglia, giusta o sbagliata che sia, di un ricambio generazionale. In una situazione del genere che cosa accade? Che il premier è costretto a mettere da parte i problemi del paese e a presentarsi davanti ai giudici. È una situazione surreale, come ha detto bene Berlusconi. Frutto, aggiungiamo, di una anomalia tutta italiana, che si concretizza nella subordinazione del potere politico – l'esecutivo e il legislativo – al potere giudiziario. Ma non basta. L'invasione di campo della magistratura nella politica ha come conseguenza, diretta o indiretta, la «politicizzazione» della magistratura, o di parte di essa. L'obiettivo, tutt'altro che nascosto, sembra essere quello della eliminazione, con ignominia, di Berlusconi dalla scena politica, ottenuta da una magistratura trasformatasi in braccio armato dell'antiberlusconismo. Ma, quand'anche questo obiettivo fosse raggiunto, quale utilità ne verrebbe al Paese? Nessuna, se non quella, al fondo eversiva e rivoluzionaria, di ottenere un cambio di governo e di classe dirigente al di fuori dei meccanismi tipici di una democrazia liberale e rappresentativa, fondata cioè, per usare la classica espressione di Joseph A. Schumpeter, sulla «libera concorrenza per un voto libero». E quindi contro il sacrosanto e basilare principio, democratico e liberale, per il quale Berlusconi, in quanto capo del governo, dovrebbe essere giudicato per quello che effettivamente abbia fatto o non abbia fatto per il Paese. Una situazione, ribadiamolo ancora una volta, assurda e anomala. Che può e deve essere corretta solo attraverso una riforma organica della giustizia che riequilibri i poteri dello Stato.

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