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segue dalla prima di MARLOWE (...) quella che poteva diventare una seconda Chernobyl, e per l'Italia mettere una seria ipoteca sul nostro piano nucleare, diventa al contrario un ineccepibile argomento per i fautori del ritorno all'atomo civil

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Vediamoperché. Il Giappone è il paese del mondo a più alto rischio sismico, eppure ha 55 reattori in funzione suddivisi in 18 centrali, ed altri 11 in costruzione e progetto. Nel 2009 ha tratto dal nucleare il 28,9 per cento della produzione di energia: l'obiettivo strategico del Paese è di giungere almeno al 35 per cento, in considerazione di due fattori. Il primo è la progressiva minore disponibilità di petrolio e la rischiosità delle aree in cui si trovano le riserve. È un dossier che il governo – indipendentemente da chi fosse al potere tra liberaldemocratici o demo-socialdemocratici (come adesso) - ha messo a punto fin dalla guerra in Iraq, e che ha trovato puntuali conferme nella instabilità dell'Iran e oggi della Libia e del Golfo Persico. Il secondo fattore è la crescente concorrenza cinese, che nel 2010 ha scavalcato il Giappone quanto a Pil scalzandolo dalla seconda posizione tra le economie mondiali. La Cina avrà sempre più bisogno di importare energia, e ha ingenti strumenti economici, politici e militari per premere sui paesi produttori a danno in primo luogo dei vicini asiatici. Da qui il piano di potenziamento nucleare. Quanto alla centrale di Fukushima-Daiichi, è tra le più vecchie del paese. Il primo reattore, quello dove è esploso il coperchio, è stato inaugurato nel 1967. La sua tecnologia Bwr, cioè ad acqua bollente, è tra le prime della seconda generazione di centrali atomiche. Ha il punto di forza nella semplicità non avendo bisogno di pressurizzazione, e l'impianto era nella lista di quelli da dismettere man mano che fossero entrati in servizio i nuovi e più sicuri reattori. Eppure, e sempre incrociando le dita, si può dire che questa centrale certo non moderna abbia superato il più drammatico dei test, se l'Agenzia atomica internazionale l'ha ieri sera classificato di quarto grado, cioè con “conseguenze locali”. Chernobyl, per dare un'idea, fu di grado sette. A Fukushima, oltre a subire un terremoto e uno tsunami inimmaginabili in Europa, è saltato il tappo, si è sbriciolata la gabbia che circonda il reattore, è andata in tilt la pompa diesel che doveva innescare il raffreddamento della struttura. E per giunta erano terminate le scorte di liquido refrigerante, per cui si è dovuto lanciare un sos agli Stati Uniti, che hanno fatto partire aerei dalle loro basi giapponesi per bombardare l'impianto con questo liquido. Insomma, è capitato il peggio. Ma non c'è stata la tragedia che molti temevano. E veniamo all'Italia. Il piano nucleare prevede l'utilizzo di reattori di terza generazione “plus”, di tipo Epr prodotti dalla francese Areva o Ap 1000 della Westinghouse-Toshiba. La tecnologia Epr (Enhanced pressurized reactor) comporta una miniaturizzazione sia del reattore, con minore quantità di uranio e di scorie da smaltire, sia della necessità di apparati esterni di sicurezza. L'obiettivo è un circuito completamente chiuso eliminando di fatto il rischio di rilascio di radioattività. Uno studio dell'Ansaldo Nucleare certificato dall'Agenzia atomica delle Nazioni Unite afferma che rispetto agli standard di sicurezza più evoluti richiesti attualmente dagli Usa, questi reattori comportano una riduzione di rischio pari ad almeno 15 volte, ed una diminuzione di cinque volte della necessità di apparati di sicurezza. Ma siccome l'Ansaldo è parte in causa, ecco le conclusioni di uno studio dell'Osservatorio sulla politica energetica della Fondazione Luigi Einaudi, del maggio 2008: “Gli accorgimenti progettuali rendono infinitesimale la probabilità di fusione del nocciolo. L'analisi probabilistica fornisce i seguenti valori: un caso su 100.000 per tutti i tipi di guasto e di rischio; meno di un caso su un milione per eventi originati all'interno dell'impianto; meno di un caso su 10 milioni per le sequenze associate alla perdita di contenimento della radioattività”. Tra i test citati dallo studio ci sono un impatto devastante con aereo (tipo l'11 settembre, insomma), un bombardamento o un sisma di livello superiore a quelli fin qui conosciuti. Ovviamente si può obiettare che la sicurezza assoluta non esiste. Ma perché negare all'Italia quanto meno di impegnare la propria industria ed i propri cervelli nella ricerca? Dopo Chernobyl siamo stati l'unico paese al mondo non solo ad aver rinunciato al nucleare, ma anche ad avere abbandonato del tutto ricerca e sviluppo: ed infatti ora è necessario affidarci ad accordi con i francesi di EdF e Areva. Attualmente con la tecnologia Epr si stanno costruendo tre centrali di modello francese e quattro americani-giapponesi. Il caso-scuola è quello di Olkiluoto, in Finlandia, che ha subito ritardi proprio per attendere nuovi test che se potessero migliorare ulteriormente gli standard di sicurezza. In nessun caso sono stati rilevati rischi imprevisti, le tipiche “falle nel sistema”. Ma le cifre assolute della ripresa del nucleare nel mondo sono di gran lunga più elevate: tenendo conto anche degli impianti non Epr, cioè meno sicuri, ce ne sono 33 in costruzione, 94 in progetto e 223 in opzione. Nei prossimi dieci anni l'incidenza del nucleare sulla produzione mondiale di energia è prevista in aumento del 48 per cento; nello stesso periodo le riserve di petrolio dovrebbero ridursi di almeno il 30 per cento ed il costo del greggio in situazioni normali (cioè senza shock di tipo libico, o peggio ancora saudita) dovrebbe aumentare del 40. Ultimo dato. Il costo del piano nucleare italiano, stimato in 18 miliardi di euro, sarà totalmente a carico dei produttori (Enel-Edf e l'eventuale cordata privata), i quali si rifaranno a loro volta con contratti di lungo termine stipulati con le aziende più bisognose di energia. Il tutto per fornire al Paese circa il 25 per cento di elettricità, una quota pari a quella che si prevede di ottenere dalle fonti rinnovabili (solo che queste ultime sono finanziate da tutti i contribuenti). Come abbiamo detto si procede tra lentezze, anche governative, e surreali bizantinismi: la Corte costituzionale, che ha riconosciuto al governo il diritto di scegliere i siti per gli impianti, ha però con una nuova sentenza imposto l'obbligo di richiedere il parere delle regioni, benché non vincolante. Visti i precedenti della variante di valico sull'A1, e della Tav in Piemonte, è facile intuire quanto tempo e soldi potrebbero costare questi negoziati. Nel frattempo Di Pietro e soci preparano le schede e gli slogan per l'immancabile referendum. La domanda è: per una volta non ci potrebbe essere risparmiato tutto questo, e potremmo comportarci non da eroi, ma magari da giapponesi?

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