Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

«L'Italia è una prigione» Quel che resta del Consolato

default_image

  • a
  • a
  • a

Unavolta era il Consolato italiano a Bengasi. Ancora oggi, dall'esterno, appare come un'elegante palazzina bianca a due piani, in un esclusivo quartiere della capitale della rivolta: all'interno, però, tutta la cruda realtà di una residenza a più riprese squarciata, saccheggiata, vilipesa e annerita dal fuoco: l'ultima volta lo scorso 17 febbraio, giorno della Rivoluzione anti-Gheddafi e anniversario della cruenta manifestazione del 2006, che ne decretò la chiusura. È chiuso il portone dell'edificio, ma le foto che pubblichiamo sono «fresche», risalgono a ieri e testimoniano quel che resta della nostra sede diplomatica. Prive di intonaco e annerite dal fumo, le pareti presentano graffiti che inneggiano a Maometto e condannano Gheddafi. E la scritta «L'Italia è una prigione» ancora campeggia nel più totale abbandono. Cumuli di sabbia portati dal vento hanno trasformato in un vero e proprio deserto di incuria il pavimento della palazzina, con porte divelte e stanze vuote, alcune con le pareti esterne squarciate che rendono ancora visibili precisi segni di un'attività amministrativa interrotta cinque anni fa: pezzi di armadi e di scrivanie accatastate alla rinfusa. Nel chiostro-giardino, una volta lussureggiante, tutto è secco e spezzato, ma quattro splendide palme hanno resistito e paiono guardare dal pulpito la devastazione. Salendo al secondo piano la situazione non migliora, tra piccioni morti ed enormi ragnatele, vetri rotti e finestre sbarrate. Qualche ribelle libico in fase di ristrutturazione domestica ha pensato bene di portar via tutti i sanitari dei bagni, compresi ovviamente rubinetti e raccordi vari. Unica cosa che si salva la splendida vista di Bengasi, ancora godibile dal tetto. A Bengasi - quando tre settimane fa è scoppiata la rivolta della Cirenaica contro il regime di Gheddafi - si stava ricordando proprio il quinto anniversario della «Giornata della collera»: nel 2006 centinaia di libici presero d'assalto il Consolato italiano dopo che il ministro Roberto Calderoli aveva indossato in diretta tv al Tg1 una maglietta con le caricature di Maometto, che all'epoca avevano infiammato tutto il mondo islamico. Bilancio: morirono 11 persone. Il personale diplomatico venne evacuato il giorno dopo con la conseguente chiusura della sede. Però, come ricordavano prima, negli anni il Consolato è stato più volte bruciato. Il sito della Farnesina indica ancora oggi «Consolato non operativo», ma il governo italiano adesso pensa di riaprirlo. Lo ha annunciato nei giorni scorsi lo stesso ministro degli Esteri, Franco Frattini, e la diplomazia si è subito messa al lavoro con un inviato, già arrivato a Bengasi, col compito di capire come fare. Innanzitutto, si pensa a una nuova sede. Non è agibile quella in Shara Omar Ebn El Aas e non è certo che le autorità libiche, o meglio del Consiglio nazionale transitorio, vogliano restituirla al nostro Paese. C'è da dire, peraltro, che già nel 2006 i libici chiesero a Roma di riaprire il Consolato per le difficoltà subito riscontrate nello svolgere attività economiche e culturali ma, soprattutto, nell'ottenere un visto passando per l'Ambasciata di Tripoli, lontana da Bengasi mille chilometri. Oggi, però, con la città divenuta la capitale della ribellione contro Gheddafi, l'«operazione Consolato» diventa molto più complessa, da gestire con la massima prudenza, per tutelare la presenza italiana a Tripoli che resta il centro delle relazioni diplomatiche tra Libia e Italia. Dunque, la riapertura della sede di Bengasi non rappresenta ancora un riconoscimento ufficiale della «nuova Libia», ma di sicuro è un segnale di come il nostro Paese voglia essere presente. Mar. Coll.

Dai blog