Obama indeciso rischia di "perdere" l'Egitto
Davanti ai fatti egiziani George W. Bush avrebbe avuto le idee chiare: «Il mio messaggio verso i popoli che vivono sotto tirannia è questo: noi non perdoneremo i vostri oppressori, noi saremo sempre dalla parte della vostra libertà». «Agli occhi dell'America i dissidenti democratici di oggi sono i leader democratici di domani». Lo disse a Praga nel 2007, parlando davanti a centinaia di dissidenti del mondo arabo e non solo. Non si può dire lo stesso di Barack Obama e della sua amministrazione. In pochi giorni sono passati da un burocratico omaggio alla «stabilità» garantita dal governo Mubarak, a confusi appelli ai diritti umani e alla democrazia. Persino il discorso tenuto dal presidente venerdì sera nella State dining room, dopo aver parlato a lungo al telefono con il presidente egiziano, risultava una mistura incomprensibile di idealismo wilsoniano e realismo kissingeriano. Con una mano, infatti, si dava sostegno ai manifestanti e ai loro «diritti universali» e con l'altra si legittimava lo stesso Mubarak - che quei diritti ha negato per trent'anni - quale garante del cambiamento. In mancanza di una «freedom agenda» di stampo bushiano, gli Stati Uniti sono tornati a leggere le cose mediorientali attraverso la rozza logica binaria di sempre: o si sostengono gli autocrati locali o si lascia spazio ai fondamentalismi. Obama non si è accorto che in questa vecchia logica ha fatto irruzione un terzo elemento, egualmente scomodo per gli altri due. C'è una nuova «piazza araba» oggi ad agire da protagonista sulla scena mediorientale, dalla Tunisia all'Egitto, passando per il Libano e lo Yemen. Niente a che vedere con quella «inventata» da Nasser e poi esportata in ogni paese arabo. Una piazza che serviva a dare uno sfogo effimero all'odio anti israeliano, anti-americano e anti-occidentale. La stessa ancora disponibile a mobilitarsi contro le vignette su Maometto o sostegno della causa palestinese ad ogni avvio di processo di pace. La nuova «piazza araba» è qualcosa che gli americani dovrebbero capire per primi perché è fatta da giovani nati a pane e internet che hanno amici in tutto il modo grazie a Facebook o Twitter, che si coordinano e comunicano con i cellulari esattamente come i loro coetanei occidentali. Questa piazza ha lasciato di stucco anche i Fratelli Musulmani che credevano di essere i soli in Egitto a poter mobilitare una protesta antigovernativa. E ha costretto anche i media di Stato a cambiare l'equazione di sempre: dimostranti uguale terroristi. Obama e gli Usa devono aggiornare i loro paradigmi perché la partita che si gioca in Egitto sotto questi nuovi auspici non è affatto più semplice, ma assieme alle solite minacce racchiude molte inattese speranze. Forse sarà proprio l'Egitto e la sua protesta in nome della democrazia e dei diritti il vero banco di prova di questa presidenza. E se continuerà a dominare l'incertezza e la confusione come è stato sino ad oggi rischia di essere una prova persa. Per tutti.