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Il fiuto globale del Cav

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Il vertice Nato di Lisbona iniziato ieri pomeriggio segna a suo modo una rivincita, e neppure tanto piccola, di Silvio Berlusconi. Vediamo perché. La prima giornata ha avuto in agenda il disimpegno dall'Afghanistan, per il quale è stata prudenzialmente cancellata ogni data anche se il termine resta al 2014 mentre la parola «ritiro» è sostituita da «transizione». Il secondo giorno, invece, i rapporti tra Usa, Europa, Russia, Turchia. Obama ha fin qui dato più attenzione ai legami con l'Asia, anch'essi accidentati come testimoniano gli scarsi risultati ottenuti a Seul e in India: resteranno però quelle le priorità della Casa Bianca, soprattutto la conflittualità economica e strategica con la Cina. Ma ora Obama deve anche fare i conti non tanto con la "vecchia Europa" (definizione di Bush), quanto con due altre potenze più che emergenti: Russia e Turchia. E su entrambi i dossier bisogna dare atto al Cavaliere di essere arrivato con largo anticipo. Ricordate il vertice di Pratica di Mare del maggio 2002, quando Berlusconi ottenne un trattato di cooperazione tra l'alleanza Atlantica allora a guida Bush e la Russia di Putin? Qualcuno, specie in Italia, la definì una inutile parata, anche se è impossibile che venti leader mondiali si scomodino per offrire una passerella al Cavaliere. Di fatto però i rapporti tra Washington e Mosca sono rimasti poi freddi, sia per l'intervento Usa in Iraq e Afghanistan, sia per le forti divergenze sul controllo delle fonti strategiche. L'Italia, alleata degli americani nella guerra al terrorismo, aveva invece scelto la Russia come primo partner energetico, al punto che il gasdotto South Stream, del tutto inviso agli americani, si può definire un'iniziativa congiunta di Berlusconi e Putin – e di Eni e Gazprom – alla quale si sono poi aggiunti Sarkozy e l'Edf. Il cambio della guardia alla Casa Bianca e l'arrivo in Italia del nuovo ambasciatore David Thorne sembravano sfavorevoli alla politica estera berlusconiana. Thorne si era fatto precedere da una rumorosa intervista in cui diceva senza troppi giri di parole che il nostro Paese doveva cercare altrove le proprie fonti di approvvigionamento: mica un segnale da poco, per chiunque conosca i veri fattori dei conflitti moderni, cioè la finanza e l'energia. E tuttavia Berlusconi non si è messo la coda tra le gambe. Ha iniziato a lavorare fin da subito, e quasi in solitario, a un avvicinamento tra Obama e Medvedev, il nuovo capo di stato insediato al Cremlino da Putin. Naturalmente con il suo stile che fa inorridire i benpensanti e quanti pensano che la diplomazia sia roba da feluche. Al G20 di Londra dell'aprile 2009 si mise in mezzo tra Medvedev e il neopresidente Usa, alla prima missione europea, per una foto a pollice alzato che fece il giro del mondo. La regina Elisabetta si domandò che cos'era quel trambusto e molti sopraccigli si sollevarono, ma non è di questo che si è mai preoccupato (né mai si preoccuperà) il Cavaliere. Il quale, mentre Obama affrontava i primi guai con i cinesi e il mondo intero con la crisi planetaria, ha mandato avanti le liaisons con Mosca, e non solo. Quanto alla Turchia, partner della Nato ma ancora fuori dalla porta dell'Ue per il veto della Germania che non vuol perdere la sua manodopera a basso costo, è un altro pallino berlusconiano. Anche in questo caso è rimasta famosa una testimonianza del Cavaliere-style, 48 ore dopo il summit londinese. Siamo a Baden-Baden, una passerella è pronta sul Reno tra Germania e Francia per celebrare la fine della seconda guerra mondiale e la relationship franco-tedesca. I grandi della Terra vanno a salutare Angela Merkel, attraversano il ponte, vengono accolti da Sarkò, ma Berlusconi resta di là, sulla sponda tedesca, e parla al telefonino. Il premier italiano infrange il grandioso protocollo, ma non è con Bondi che sta dialogando fittamente, né con qualche Patty: bensì con il premier turco Erdogan, rimasto ad Istanbul, e che ora si tratta di convincere a rimuovere il veto alla nomina alla segreteria della Nato del danese Rasmussen. Di Erdogan, Berlusconi è ovviamente un vecchio amico, così come di tanti leader mondiali che altri, magari, preferiscono trattare in punta di forchetta (per esempio, Gheddafi). È stato anche testimone di nozze di Erdogan Jr., portando doni alla sposa, allo sposo e parenti vari. E dunque tra lui e Obama riescono nell'impresa. Fin qui il passato. Che oggi, però, torna molto utile sia al Cavaliere, sia alle varie parti in causa, se il riavvicinamento tra Washington, Mosca e Ankara andrà a buon fine. Gli Usa hanno bisogno dei permessi di transito ai voli per l'Afghanistan, indispensabili alla strategia surge, cioè lo sforzo militare teorizzato dal generale Petraeus prima di qualsiasi disimpegno. Inoltre devono far digerire alla Russia il sistema di difesa antimissile europeo concepito da Obama, qualcosa da 20 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni. Quanto alla Turchia, stufa di essere il semplice bastione orientale dell'alleanza, vuole le mani libere nei rapporti con Teheran, e altrettanta libertà nella politica energetica necessaria a sostenere una crescita che, mentre l'Europa langue, segna rialzi sopra il 10 per cento. E qui in qualche misura il cerchio potrebbe chiudersi. Che sia stata preveggenza o il classico fiuto dell'outsider, Berlusconi non ha sbagliato a puntare, già anni fa, su Paesi emergenti o border line come Russia e Turchia. Non dimentichiamo che cos'erano nei primi anni 2000: la Russia dilaniata tra oligarchi, guerra in Cecenia e crisi economica; la Turchia a rischio fondamentalismo. Oggi lo scenario mondiale, strategico ed economico, è cambiato e ancor più cambierà: secondo le ultime previsioni elaborate da Ocse e Fondo monetario e sintetizzate giovedì scorso dal Centro Einaudi, tra il 2020 e il 2025 assisteremo ad un gigantesco rimescolamento della ricchezza, e di conseguenza del potere.   La classe media, che ora solo per il 46% vive fuori da Europa e Nord America, nel 2020 raggiungerà nelle economie emergenti il 70%. Contemporaneamente il Pil di questi Paesi – dalla Turchia alla Cina, dal Brasile alla Russia, ma anche dal Messico alla Libia – supererà la somma di Usa ed Europa. Attualmente la ricchezza mondiale è al 57% prodotta in ciò che definiamo Occidente; nel 2025 tra le due sponde dell'Atlantico si produrrà meno del 45-48%, mentre più della metà andrà altrove. Conclusione: l'immagine dell'Italia all'estero dispiacerà a Veltroni, Fini e magari al Financial Times. Ma negli affari internazionali la sostanza è cosa diversa dalla forma, come ha recentemente spiegato un certo Blair.  

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