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Bersani rinvia la rottamazione

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C'è chi vorrebbe rottamarlo. E forse non hanno tutti i torti visto che, prossimo ai 60 anni (è nato nel 1951), Pier Luigi Bersani è sulla scena politica dal 1990 quando divenne vicepresidente della giunta regionale dell'Emilia Romagna. Poi presidente dal 1993 al 1996, ministro nel primo governo Prodi, nel primo e secondo D'Alema, nel secondo Prodi. E, oggi, segretario del Pd con velleità da candidato alla presidenza del Consiglio. È in queste vesti che, ad un anno dalle primarie che lo hanno incoronato, si presenta davanti a 150 giovani democratici per rendere conto di quanto fatto finora. La location è il Tempio di Adriano in piazza di Pietra trasformato per l'occasione in qualcosa a metà tra l'Arena di Massimo Giletti e la prima edizione di Amici di Maria De Filippi (quella in cui i ragazzi discutevano dei loro problemi ndr). Bersani è al centro seduto su uno sgabello bianco, attorno a lui degli spalti con giovani militanti e amministratori. Un'occasione d'oro per un simbolico passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo che avanza. E infatti il segretario ricorda: «Il giorno in cui sono stato eletto l'ho detto a chiare lettere. Dobbiamo avere rispetto per chi ci ha portato fin qui, ma chi ci ha portato fin qui sa bene che la ruota della politica gira...» Per tutti, evidentemente, tranne che per lui. Bersani assicura infatti che «andremo avanti con il programma di ringiovanire il partito. Alle prossime amministrative vogliamo mettere in campo molti giovani. Noi della vecchia guardia possiamo tenere ancora un po', ma poi dovremo andare a riposarci». Non subito, tra un po'. E comunque, aggiunge, «un sindaco o un presidente del Consiglio giovane piuttosto che vecchio non frega alla gente se poi non gli risolve i problemi». Verrebbe da chiedergli se si tratta di un'autocandidatura. In fondo, spiega, il Pd è un partito «giovane» che «deve darsi del tempo». E siccome si tratta di «un partito di governo momentaneamente all'opposizione», deve fare politica «battendo sui problemi e sulle cose». Non molto innovativa come strategia politica, ma è chiaro che, con le sue parole, Bersani vuole soprattutto mandare un messaggio a tutti quelli che, a vario titolo, lavorano per prepensionarlo. Matteo Renzi in primis, ma anche Nichi Vendola. A loro il segretario fa sapere che «bisogna diffidare dall'eccesso di personalizzazione perché le leadership sono pro tempore e i modelli plebiscitari del ghe pensi mi» non sono accettabili nelle democrazie. Con una piccola postilla. Anche ieri Pier Ferdinando Casini ha rifiutato l'ipotesi di un'alleanza con Vendola e Antonio Di Pietro, mentre a Bologna, Maurizio Cevenini (superfavorito per la vittoria delle primarie del Pd e delle comunali del prossimo anno) ha deciso, dopo i problemi di salute, di ritirarsi dalla corsa lasciando i Democratici nel caos. L'impressione è che ci sia bisogno di qualcuno che dica ghe pensi mi. Magari il leader del Pd.

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