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Gianfranco, grande affabulatore ma poco credibile

Gianfranco Fini durante il suo intervento alla festa di Futuro e Libertà a Mirabello

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MIRABELLO (Ferrara) - Quanto è credibile Gianfranco Fini? È la risposta a questa domanda che determinerà le prossime mosse nella partita a scacchi tra il presidente della Camera e quello del Consiglio. Non a caso il premier, in più occasioni e in privato con i suoi, ha detto di considerare il leader di Futuro e Libertà «non più credibile». Di sicuro, l'intera vicenda della casa di Montecarlo ne ha minato il consenso e finanche l'autorevolezza. Ne è consapevole lo stesso Fini, che a sua volta a più riprese ha spiegato che le inchieste giornalistiche su di lui, sull'appartamento della contessa Colleoni dove vive il fratello di Elisabetta e sulla stessa famiglia Tulliani, erano proprio un tentativo di screditarlo e comunque non lo fermeranno. Certo, continuare a non dare risposte su tanti punti rimasti oscuri - per non dire incredibili - non aiuta la sua immagine. Ci sono anche altri aspetti sui quali si misura la sua credibilità e il fatto che questa si possa trasformare in consenso, in seguito politico, e in ultima analisi, in voti (che dovrebbero essere l'unico vero metro di giudizio della politica). Fini, nel suo discorso a Mirabello, si è rivolto principalmente al suo elettorato storico. Ai missini. Di fronte ai quali si è presentato anzitutto come alfiere di un patrimonio ideale, quello della destra italiana, che non può essere cancellato o maltrattato da un Berlusconi che non accetta il dissenso: questo concetto ha fatto breccia in quel mondo. Tutta la giornata di domenica è stata un messaggio subliminale diretto a quel popolo, che Fini ha implorato di tornare alla battaglia, come se si trattasse di una questione di vita o di morte. Sua e dei suoi. Ha scelto di salire sul palco sulle note di una delle canzoni meno conosciute di Lucio Battisti, «Uno in più», ma popolarissima tra i ragazzi della destra negli anni Settanta. La strofa simbolo recita: «Una voce sta cantando ma son pochi ad ascoltare, i gabbiani stan gridando per poterla soffocare». Il ritornello è un appello a unirsi per esser più forti. Poi Fini è tornato a citare Giorgio Almirante. Non succedeva da anni. E anzi aveva fatto di tutto per affrancarsi da quel mito. Nel video commemorativo del decennale di An, appena cinque anni fa, vennero rimosse le immagini del suo padrino politico. Donna Assunta, seduta in prima fila, se ne accorse e se la prese al punto che stava per andarsene per protesta, quando magistralmente Ignazio La Russa ne fece proiettare un altro, fatto da lui e Gasparri, con Almirante. Insomma, Fini è tornato a cercare quella destra da cui in tutti i modi, negli ultimi anni, ha provato ad allontanarsi; è tornato a coccolare quel mondo verso il quale sembrava provare sino a qualche mese fa autentica repulsione, sincero ribrezzo. Per sua sfortuna, quell'elettorato non dimentica. E non perdona quello che considerava un inutile accanimento da parte di Fini nel condannare anche la Repubblica di Salò come male assoluto (domenica invece ha celebrato il repubblichino più celebre, Mirko Tremaglia, seduto in prima fila), così come non accetta il sostegno al referendum per la fecondazione assistita, il voto agli immigrati, l'ok alla pillola abortiva, la cittadinanza breve. Tutti temi che Fini due giorni fa ha elegantemente evitato. Sì, il pubblico c'era nella piccola piazza di Mirabello. C'era lì come davanti agli schermi televisivi, con relativo botto di ascolti che non automaticamente si trasformano in preferenze. Per ora, si è trattato soprattutto degli amici di via Sommacampagna, fedelissimi, molto Sud e soprattutto tante vecchie facce note, lo stesso tipo di pubblico che c'era anche quando nacque La Destra di Storace. Tutta gente che s'è messa in macchina convinta di non voler mancare un passaggio storico, avendone vissuti molti dei precedenti. Di mondo esterno alla destra o di nuova destra, di italiani del futuro (gay, immigrati, coppie di fatto o coppie miste, delusi del Pd, cioè tutti coloro che si spellano le mani sui siti internet), di semplici italiani, s'è vista ben poca roba. Si sono visti tanti militanti di destra, con grande voglia di parlare di politica - e Berlusconi farebbe comunque bene a non sottovalutare – Voglia di politica negli stand di Mirabello: sembrava una seduta di autocoscienza. Le folle plaudenti, per ora virtuali, soprattutto da sinistra non c'erano. Ma Fini è proprio sicuro che la gran parte degli italiani abbia capito perché lui ce l'ha con Berlusconi? È davvero convinto che fuori dai Palazzi sia chiaro dove vuole andare a parare? C'è poi un altro aspetto che attiene alla credibilità ed è la concretezza. Spesso i sondaggisti del Cavaliere spiegano che gli italiani vogliono che la politica faccia, agisca, realizzi. Infatti Berlusconi continua a mandare messaggi di quel tipo. Subito dopo il 29 luglio, il giorno dell'ufficio di presidenza che si concluse con l'ultimatum a Fini, palazzo Chigi diramò un comunicato con le ultime realizzazioni del governo e della maggioranza come il codice della strada, la manovra per i conti pubblici e la riforma dell'università. Fini rischia di apparire come uno che frena, un disturbatore, come se l'unico suo obiettivo fosse incartare Berlusconi. Pertanto, tutto ciò che sostiene rischia di apparire puramente strumentale a quello scopo. Per evitare ciò, Gianfranco ha rivoltato la frittata, sostenendo che il governo ha fatto ma non abbastanza. Ma qual è la carta in più che può sfoderare contro Silvio? Dice un finiano: «Se la carriera di Berlusconi finisse oggi, sarebbe ricordato per due provvedimenti che hanno davvero cambiato la vita degli italiani: la patente a punti e la legge antifumo». E Fini? C'è una sola legge che porta il suo nome, peraltro in comproprietà con Bossi e peraltro in parte disconosciuta. Quel che gli reclama Berlusconi è di aver strillato per anni per la maggiore collegialità in Economia, di aver chiesto e ottenuto la testa dell'allora ministro e quando gli venne offerta la poltrona del dicastero la rifiutò. Gianfranco rischia di trovarsi affibbiata la sindrome Veltroni, e tuttavia proveranno ad affibbiargliela. Dice tante cose condivisibili, troppe: al punto che nessuno crede che mai le farà. Il ma-anchismo. Come per Walter il punto non sono i contenuti, non è nelle cose che dice, piuttosto in quelle che farà, se riuscirà a farle. Infine, la sua credibilità affonda le radici nelle sabbie mobili della tattica. Del tatticismo elevato a strategia. Ha fondato un partito che non c'è. È rimasto ambiguo. Henry Kissinger la chiamava constructive ambiguity, ambiguità costruttiva. Ricorrere a un linguaggio fumoso per non far capire la sua proposta politica. Fini invece ha usato un linguaggio cristallino per una proposta fumosa. Ma questa è una sua specialità.

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